La performance è una forma d’arte
interessante e contemporanea. Riflette situazioni, affronta problematiche del
momento, lancia messaggi. Il valore estetico non è più il solo dell’opera
d’arte, che deve comunicare qualcosa e non può limitarsi a emozionare. Deve
colpire, far riflettere, coinvolgere. Frangente Breaker di Adelita Husni-Bey
per Furla Series al Museo del Novecento di Milano ieri e oggi, sicuramente non
lascia indifferenti. Forse non trascina, ma sollecita il pensiero. Anche se,
per chi ha visto l’ottimo film The Square
dello svedese Ruben Ostlund, è difficile
non pensare ai punti di contatto. In questo lavoro l’artista italo-libica,
classe 1985, nata a Milano ma di stanza a New York, affronta tre tematiche
diverse, in tre atti. Il primo tratta la percezione. Il pubblico diviso in
gruppi davanti a un’opera della collezione, dopo averla osservata, è invitato a
occhi chiusi a pensare a una descrizione da esporre tutti insieme in
contemporanea e se chiamati per nome (dato all’ingresso) singolarmente.
L’esperimento, ispirato al Teatro
dell’Oppresso (tecniche teatrali create dal regista brasiliano Augusto
Boal), risulta forzato. Gli spettatori sembrano più attenti a non fare brutta figura che a dare una
descrizione sentita dell’opera. Il secondo atto nella Sala Fontana (nella foto) L’esilio, affronta il tema scottante
dell’emigrazione. Ragazzi di colore del centro di accoglienza per migranti
leggono scritti di esiliati di fronte a insegnanti d’ italiano. Quando uno dei
due insegnanti sembra cadere a terra e viene sorretto, tutti si chiedono se fa
parte della performance. Solo più tardi si riesce a sapere che il malore era
vero. E lì si avverte un disagio e il parallelo con la scena dell’energumeno
alla cena di gala di The Square è immediato. L’ultimo atto Azione per una catena umana si svolge sul sagrato del Duomo e vede due gruppi di performer intenti a
costruire con dei sacchi una barriera per difendersi da un’immaginaria
inondazione( nella foto in una piazza di Ghent). Ma entrambi cercano di attingere sacchi dal muro dell’altro,
vanificando il lavoro. E la critica all’incapacità di fare sistema e al
difficile rapporto tra identità individuale e collettiva è lampante.
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