Ma Babbo Natale dove dorme quando viene in
missione in Italia? Un quesito che i bambini più pratici si saranno posti,
mettendo in difficoltà genitori e adulti di riferimento. Certo volando con le
renne lui fa presto. Non ha bisogno di catene o gomme da neve, e può viaggiare di notte. Ma ha una certa età e Rovaniemi non è a due voli di piccione. Sarà stato interessante scoprire che in Italia un tetto ce l’ha, ed è qualcosa di più di un pied-à-terre. E’ un castello a Camogli con straordinaria vista mare. Il clima non è tropicale, ma è lontano
dai rigori della Lapponia e i tramonti sono da urlo. Non è accessibile in auto,
ma ha un grande terrazzo perfetto per posteggiarci slitta e renne. Nel salone
di accesso con camino poltrone e piccoli orsi bianchi, per creare atmosfera,
c’è una reception in cui efficientissimi elfi prendono le lettere dei bambini
o danno degli attestati da far poi firmare allo stesso Babbo Natale. Accanto c'è un marchigegno con carrucola dove mettere le lettere, direttamente
collegato alla “posta centrale” in Finlandia. Al piano di sopra, dove preferisce
stare Santa Klaus su una poltrona-trono, c’è il suo letto con pantafole, una
scrivania dove sbriga la corrispondenza sempre cartacea, un camino e una tavola
imbandita. Si fanno delle ipotesi su eventuali cene a lume di candele, dopo che
i visitatori se ne sono andati.Magari uno di quegli, solo apparentemente
assessuati elfi, che nella finzione si preoccupano del suo benessere, bucato
compreso steso a una finestra. Sul terrazzo in alto con vista portentosa sul
Golfo Paradiso un falegname vero, non Giuseppe, insegna ai bambini a lavorare
il legno. Non è un sogno pazzo. E’ tutto reale dal 7 dicembre e lo sarà fino al
4 gennaio. I mobili sono veri, autentici Ottocento e arrivano dall’Antichità
Sinatra di Ruta di Camogli. Gli elfi sono volontari come i babbi natale che si alternano sotto il completo
rosso e bianco, per la maggior parte atletici campioni delle squadre di calcio
o di pallanuoto. La carrucola della posta e la slitta sono state realizzate dai
detenuti del carcere di Marassi. Dietro, dall’idea alla realizzazione, la Asco
associazione dei commercianti e degli operatori turistici di Camogli. Un’ottima
iniziativa che è stata molto apprezzata, come racconta in numeri la presidente
dell’Asco, Luciana Sirolla: 9600 passaggi Facebook, 1400 visitatori il primo
giorno e una media di 350 per gli altri giorni, Natale compreso.
martedì 30 dicembre 2014
lunedì 22 dicembre 2014
BUONGIORNO, SONO APE MAYA
Il monologo a teatro è un’arma a doppio taglio.Se
l’attore/attrice è convincente, ben calato nel ruolo, può incantare lo
spettatore, anche se il testo ha solo qualche spunto interessante. Se,
invece, chi recita non è abbastanza dentro la parte, per quanto ben scritta e di livello, si prova la strana sensazione che si disperda, che non prenda e che, soprattutto, sarebbe stato meglio leggerla. Non succede con “Diario di un’ape operaia” di
Giulia Lombezzi, per la quale calarsi nella parte sembra essere assolutamente naturale. Non si
riesce a immaginare come si potrebbe interpretare quel copione in modo migliore
e con una gestualità più adatta. La motivazione è semplice da scoprire. La
giovane attrice(classe 1988) è riuscita nell’intento proprio perché ne è anche
l’autrice. Certo è importante, ma non determinante, il contributo di Claudio
Gay pianista e compositore suo coetaneo, che ha scelto dei pezzi musicali, come
stacchi o di accompagnamento, che non solo non deviano minimamente dal senso
del monologo, ma lo rafforzano. Come dice il titolo, è il racconto di
un’ape-donna che alla ricerca disperata di un lavoro lo trova in un
alveare-call center. All’inizio è un crescendo d’ilarità per i tentativi della
precaria-ape di realizzare più chiamate possibili in meno tempo. Con qualche
elemento forse un po’scontato, ma trasformato e reso inedito da una recitazione
veloce, scattante, dove la mimica e il movimento, e anche la musica di appoggio,
sono davvero innovativi. Poi, senza perdere il filo dello humour, il racconto
diventa più serio, fino ad arrivare al patetico e a toccare, senza presunzione,
ma con osservazioni acute, il problema umano e sociale.
venerdì 19 dicembre 2014
SEXY CHRISTMAS
In Italia sette donne su dieci e otto uomini su
dieci considerano il Natale il momento migliore per tradire il partner. E’
quanto riporta l’indagine svolta dal portale Incontri-ExtraConiugali.com su un
campione di mille uomini e mille donne
di età compresa fra i 24 e 60 anni. Perché ci si chiede? Forse per la facilità
di introdursi in casa dell’amante senza dare nell’occhio? Magari travestiti da
Babbo Natale o infilati in un grande pacco spacciandosi per un panettone (in
questo caso inevitabile la complicità di un amico/a robusto/a)? O forse perché la
trasgressione è la normale reazione di difesa quando si è circondati da
quadretti alla Mulino Bianco, valanghe di buoni e melensi propositi,tonnellate di foto tutti insieme?
O forse perché si vuole preparare il terreno per una
riconciliazione a S.Valentino, dando finalmente, una volta per tutte, un senso
all’insulsa cenetta a lume di candele del 14 febbraio? O forse, più banalmente,
perché la scusa dell’acquisto-sorpresa senza bisogno di giustificativi, regala
ore per incontri clandestini? Secondo i
risultati della ricerca, che si è occupata
anche delle motivazioni, il tempo del
finto shopping è un elemento importante, ma in secondo piano rispetto al “fascino del proibito”. Questo
condiziona il 65% degli uomini e il 72% delle donne. Per le più giovani è una
sfida-competizione con la partner ufficiale, resa più difficile e quindi più intrigante da
tradizioni e incontri famigliari, per le altre è una voglia di evasione dalla
routine. Da leggersi quindi come un
autoregalo.
Nelle foto dei mps (mai-più-senza) per Natali
trasgressivi. Felpa con maniche d’oro e stampa di rossetto, invece di renna o
albero di Natale (Leitmotiv). Cannuccia in argento brunito e decorato, ideata
dalla stilista russa Masha Sontzef e realizzata da orafi fiorentini, per non macchiare
di rossetto la flûte di champagne e un bracciale punk in pelle e pietre per giochi
sadomaso(GFase).
mercoledì 17 dicembre 2014
LA NUOVA CITTA' CHE SALE
E’ un peccato che la scultura di Maria Cristina Carlini sia
a Rho Fiera Milano, dove quando ci si va si è
sempre troppo di fretta per apprezzarla come dovuto. In acciaio corten e legno
di recupero, alta dieci metri, è installata su un laghetto davanti
al Centro
Congressi. Come tutte le opere della scultrice ha un titolo “La nuova città che
sale”. E’ una scala che non finisce con un gradino o un piano, ma con una punta.
Non è tortuosa, ma ha l’aria di essere accessibile. Come osserva Camillo Fornasier, consigliere delegato arte e cultura
Fondazione Stelline, pone una domanda, ma di positività. “Finisce nel cielo o
si contrappone al cielo”. Si chiama in modo simile a
un dipinto di Boccioni di un centinaio d’anni prima “La città che sale”.
Secondo il presidente della Fondazione Mudima Gino Di Maggio pochi artisti
avrebbero osato. Eppure la scelta del nome per Carlini non è dettata
d’arroganza, ma esprime una considerazione sull’opera. Entrambe, infatti, pur
diverse tra loro, raccontano gli inizi di un secolo pieno di innovazioni. A
fare da cornice sono il palazzo Vela di
Fuksas e i due edifici scuri di Dominique Perrault, con i quali dialoga in
sintonia. Secondo Philippe Daverio, Maria Cristina Carlini, come Pino Spagnulo
e Giovanni Kounellis, sono artisti capaci di stabilire un linguaggio
comune, che li identifica “nella tribù”. Le loro opere di quel
colore ruggine, sono in armonia con l’architettura contemporanea, parlano lo
stesso linguaggio. “Perché senza linguaggio non esiste l’arte”. E la ricerca dei
materiali e l’uso di alcuni insoliti, sempre in
armonia con lo spazio intorno, sono la caratteristica forse principale
dei lavori di Carlini(dai campus universitari di Denver alla Città Proibita di Pechino, al Lungomare
di Reggio Calabria, ecc.). “Mi piacerebbe fare delle sculture e sapere dove
vanno” dice l’artista, in genere restia
a parlare delle sue creazioni e delle sue fonti d’ispirazione: “Vorrei che
ognuno ci potesse vedere quello che vuole”.
lunedì 15 dicembre 2014
VOGLIO SOLO TE'
Se si mettono a confronto tè e caffè
e il loro uso nel mondo occidentale, il primo ne esce distrutto e annientato. Il
caffè sembra essere una condizione per vivere, qualcosa da cui non si può
prescindere. E’ il protagonista delle frasi luogo comune:“Senza un caffè la
mattina non connetto”. “Il primo
pensiero quando mi sveglio è il caffè”. “Riesco ad aprire gli occhi solo
davanti a un caffè”. E’ la motivazione per un incontro rapido: “Vediamoci per un
caffè”. Nessuno direbbe mai “Vediamoci
per un tè”. Eppure la negletta bevanda ha lunghe tradizioni e antichi rituali.
Ha una sua ora, le sue sale e per molti decenni è stata la motivazione per un
ricevimento in grande stile (“La bevanda che permette anche a un povero di
ricevere come un principe” scriveva Pittigrilli). L’invito di signore per un tè, annunciato con
giorni di anticipo, richiedeva abiti, orari, servizio, porcellane, argenti. “Venga
a prendere un caffè da noi” non necessita di una preparazione, si dice ai
vicini o a persone in confidenza. Anche nel modo d’uso il tè guarda alle
tradizioni, il caffè si rinnova, a cominciare dalle apparecchiature. Pure il
packaging si differenzia. Chi
regalerebbe una
confezione di caffè? Invece il tè si presta a diventare un oggetto-dono. Ne è
un esempio la scatola del Tsarevna Kusmi Tea, il tè di Natale nero
speziato di base con aromi d’arancia, vaniglia e mandorla. Racconta la storia di quel Pavel Kousmichoff
di S.Pietroburgo fornitore degli zar, con la sua casa del tè fondata nel 1867, che, fuggito dalla rivoluzione del 1917, apre una boutique a Parigi, abbreviando il suo nome in Kusmi. Quindi si
espande a New York, Londra, Berlino. Ora il marchio è di proprietà della
famiglia Orebi, nel settore dal 1935, e ha negozi nelle più importanti città,
in Italia solo a Milano. Accanto alle vecchie “boites”, rivisitate fedelmente,
e alle centennali miscele, ci sono nuovi tè “salutistici” con packaging contemporanei e di design. Come
dicono gli eleganti still life del fotografo Dimitri Tolstoï, discendente dello scrittore.
venerdì 12 dicembre 2014
E' NATALE, NON SOFFRIRE PIU'
regalare alla Pucci una borsa “come l’anno scorso”, al Giovanni un libro “anche
se non legge mai”, ai vicini gentili dei
cioccolatini “che se mai li offrono”. C’è anche chi prova lo Snatale,
organizzando festeggiamenti al contrario. Lì per lì tutti trovano l’idea
geniale, ma poi sotto sotto, senza farsi vedere, rimpiangono l’albero e Jingle Bells.
C’è però un giusto mezzo tra il bianco, sdolcinato,
cariatore di denti, Natale tutto rosso-oro-abete, dove l’inutile consumista
regna sovrano e il Natale alla Savonarola antispreco, mortificante, cupo e
anche un po’ flagellante.
Qualche esempio di regalo? Caratterizzato per la
stagione, ma non con renne & company stile maglione di Colin Firth-Mark
Darcy, il cardigan, per lei, in lana con i lama, Perù style (Nice Things).
Invece della scarpetta da Cenerentola da usare solo per un party, dove le
possibilità di incontrare il principe
azzurro sono lo 0,0001 per mille, la
Superga pied-de-poule
utilizzabile in molte occasioni e altrettanti incontri. Per chi ha un
cane ecco il guinzaglio Vario della Flexi, allungabile, con luci led,
ergonomico. In altri cinque colori oltre al rosso. Meglio che regalare un cane. I canili sono
pieni di ex sorprese natalizie e c’è anche chi il 26 nella spazzatura ha
trovato e salvato un cucciolo con tanto di fiocco rosso.
E infine anche sulla tavola qualche variazione.
Senza arrivare all’hot dog al posto del
vol-au-vent o del capitone e alla Coca Cola invece dello spumante. Per il
brindisi finale, perfetto con dolci e pasticcini, un Moscato di qualità. Come
il Nivole d’ Asti dal profumo intenso
“con sensazioni” di salvia, pesca, pompelmo e meringa.
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