In
scena c’è un vecchio disperato, tiene un fazzoletto nelle mani tremanti e parla
con il pianto in gola della moglie sedicenne, morta suicida da poche ore. E’ un
monologo tratto dal racconto La mite di Fedor Dostoevskij. Apparentemente la storia struggente di due
solitudini. Da una parte un uomo anziano che gestisce un banco dei pegni,
dall’altra una giovane orfana alla ricerca di un lavoro per liberarsi dalla
schiavitù in cui la tengono due acide zie. Lui scambia in denaro le povere cose
che lei gli porta, finché un giorno decide di sposarla. Un atto di pietà e di
amore ricambiato da grande devozione? Già dalle prime
parole si capisce che non
è così. Soprattutto il ritratto che emerge di lui è completamente diverso. La
pietà per un uomo che da qualche
ora ha seppellito la giovane
compagna scompare già dalle prime battute. Per far posto a un crescendo
di disprezzo per un essere di spietato egoismo, presuntuoso, incapace di
sentimenti, con un maschilismo bieco anche per i tempi. Lei la mite dalle parole di lui non è una povera ragazza,
docile, che ha solo un momento di comprensibile ribellione, ma è un essere
irriconoscente, sbiadito, senza peso, come la ballerina in bianco che ogni
tanto volteggia sulla scena. Lui le ha dato tutto socialmente e deve sopportare
in silenzio le sue accuse di avarizia e vigliaccheria. L’ insensibilità, la meschinità, la
ridicola falsa disperazione di lui hanno il momento clou nella frase finale “E adesso cosa sarà di me?”.
Convincente più che mai l’interpretazione di Vittorio Ristagno, capace di rendere il personaggio in
tutta la sua sgradevolezza. Ottimo l’intervento coreografico di Beatrice Rossi.
Ben studiati regia, luci, suoni, scenografia, dato anche lo spazio non
teatrale dell’Aula Magna
dell’Istituto Nautico di Camogli, dove si è tenuto ieri lo spettacolo.