venerdì 31 maggio 2024

NON E' TUTTO ORO...

Anche se si è visitato il Museo dell’oro di Bogotà, si è visto solo una piccola parte di quel “mondo” che invece si riesce a capire e interpretare al Museo Rietberg di Zurigo, fino al 21 luglio. Non solo perché la mostra Più che oro è stata realizzata con la collaborazione, oltre che del museo colombiano, del Los Angeles County Museum of Art  e del Museum of Fine Arts di Houston. Ma, soprattutto, perché vi hanno collaborato membri della comunità indigena colombiana degli Arhuaco. Come anticipa il sottotitolo della mostra Lustro e visione del mondo nella Colombia Indigena





Per quanto siano straordinarie come fattura e creatività, non è tanto il valore intrinseco delle opere, quanto quello che raccontano, ben documentato dal lavoro di Fernanda Ugalde, curatrice presso il Museo Rietberg  e co-curatrice della mostra.  Non è l’oro il protagonista  e non perché ci siano parecchi pezzi in prezioso platino, smeraldi, ma anche in pietra, terracotta, ceramica o fatti di conchiglie o di piume. L’oro prevale negli ornamenti, negli orecchini, nei collari, nei bracciali, negli anelli, pure in quelli da infilare al naso o addirittura in quelle specie di maschere con straordinarie incisioni sempre da infilare al naso. Mentre le urne funerarie, le ciotole, le statuette sono in pietra o in ceramica. Ogni materiale parla in uguale modo delle comunità indigene. L’uso della coca è continuamente richiamato. Non solo nelle ciotole, ma soprattutto nelle statuette che rappresentano un indigeno seduto che mastica, con la guancia deformata. “Sedersi e pensare” è la frase che sintetizza uno stile di vita,  spiega Ugalde. La coca è un modo per comunicare con il mondo intorno. Sempre in  pietra sono fatte le ocarine, anche a forma di uccello perché ne imitano i versi. Frequente la rappresentazione degli animali, il pescecane con i suoi denti è uno dei preferiti. Volutamente schematiche le didascalie . Svariate le foto di paesaggi colombiani, cerimonie e raduni di indigeni. Una stanza del percorso museale è tappezzata da immagini di boschi e di natura con qualche maschera appesa. Ci sono dei sedili in cerchio per ricreare l’atmosfera delle riunioni indigene. Questa mostra è anche un’ottima occasione per conoscere il museo, uno dei più grandi musei d’arte della Svizzera, dedicato alla culture tradizionali e contemporanee di Asia, Africa, America, Oceania. E’ “diffuso” in tre ville ottocentesche in una delle quali visse Richard Wagner per diversi mesi. Annessa un’ala contemporanea con grandi vetrate dove si tengono le mostre temporanee, come appunto Più che oro, e un rifornito e incuriosente museum store. Il tutto immerso in uno strepitoso, grande parco vicino al lago.  

mercoledì 29 maggio 2024

TRE PEZZI FACILI ...E SOPRATTUTTO DIVERTENTI

Ci si ripete, ma è vero che una pièce teatrale, se molto buona, non ha età. Nel caso di un genere comico poi sembra impossibile, dati i molteplici cambiamenti di stili di vita e soprattutto di "stili del ridere". Con Crisi di nervi. Tre atti unici di Anton Cechov ci si convince che è possibile, perché davvero si ride e di gusto. Dopo il successo in prima nazionale al Teatro Biondo di Palermo, continua a  mietere applausi e risate alla prima milanese al Teatro Menotti Filippo Perego,  dove sarà fino al 9 giugno. 



Molto del merito va al regista il tedesco Peter Stein e ai sei attori, di cui si intuisce l’ottimo lavoro di squadra, se così si può definire. Tre i pezzi portati in scena, scritti tra il 1884 e il 1891 da un Cechov non ancora trentenne, deluso dagli insuccessi con il teatro drammatico. Ispirati al vaudeville francese, non ne seguono pedissequamente lo spirito,  perché impregnati di un sarcastico cinismo e di un realismo paradossale, difficile da trovare a quei tempi. Il primo atto unico L’Orso, vede nascere improvvisa la storia d’amore tra un’inconsolabile vedova che rifiuta ogni contatto con il mondo (Maddalena Crippa) e l’orso, un contadino ricco e grezzo, venuto a riscuotere i suoi crediti (Alessandro Sampaoli), sotto gli occhi esterrefatti del vecchio servitore (Sergio Basile). Il secondo atto unico, I Danni del Tabacco è un monologo di un improvvisato oratore in frac (Gianluigi Fogacci) che coglie l’occasione per lamentarsi dei maltrattamenti della moglie e delle sue sette figlie. Nel terzo e ultimo La Domanda di Matrimonio, un giovane timido e impacciato (Alessandro Averone), in abito da sera va dai vicini a chiedere in sposa la figlia, viene cacciato dal padre (Sergio Basile), ma subito dopo richiamato perché la figlia (Emilia Scatigno) non vuole perdere quell’occasione. I due futuri sposi iniziano subito a litigare con insulti pesanti, prima su un certo Prato del Bove, terreno di confine fra le due proprietà, poi sul cane migliore fra i loro due. Dopo uno svenimento del giovane tutto si ricompone grazie al padre che, con bicchieri di champagne in mano, brinda alla felicità di coppia fatta anche di battibecchi. Questa ultima parte, se pure divertente e molto movimentata, forse, rispetto all’originale risulta un po’ lunga.  (Nella foto in alto, da sinistra Alessandro Sampaoli, Gianluigi Fogacci, Maddalena Crippa, Peter Stein, Alessandro Averone, Sergio Basile, Emilia Scatigno).


martedì 28 maggio 2024

UCRAINA : DIETRO IL CONFLITTO

Lo chiamano Festival e questo anticipa in parte la forma e la formula, che il titolo Ucraina è Ucraina, conferma incuriosendo. Da ieri fino a venerdì l’Ucraina viene “raccontata” con un incontro ogni sera dalle 18 alle 22 nella sala Liberty del Circolo Filologico di Milano. Conferenze, esposizioni, video, tutto organizzato da Boristene, associazione culturale ucraina in collaborazione con il Circolo Filologico. Storia, arte, musica, letteratura, cinema i temi trattati. Con performance live di artisti, concerti di musicisti, letture di attori, proiezione di filmati. Che si concluderanno, il giorno dedicato al cinema, con un video-saluto di Mstyslav Chernov, regista del documentario 20 giorni a Mariupol premio Oscar 2024.  


Ad aprire il festival la presentazione dei curatori Svitlana Tereshchenko per Boristene e Luciano Tellaroli per il Circolo Filologico. Seguita dai saluti ufficiali, in video, del capo dell’Ufficio del presidente dell’Ucraina e dell’Ambasciatore italiano a Kyiv Pier Francesco Zazo e, in presenza, dell’Ambasciatore dell’Ucraina in Italia.  Che hanno messo in luce come i russi vogliano rubare la storia dell’Ucraina e distruggere la sua identità e la sua appartenenza come cultura all’Europa.  Anticipando i punti clou della lectio magistralis dell’ospite della serata Yaroslav Hrytsak, storico ucraino direttore dell’Istituto di Storia dell’Università di L’viv, e tra vari titoli membro della supervisory board dello Harvard Ukrainan Research Institute, nonché autore della Storia globale dell’Ucraina, edito in Italia da Il Mulino. A dialogare con lui Giulia Lami, ordinaria di Storia dell’Europa orientale all’Università Statale di Milano e autrice del libro Ucraina in 100 dati. Nel suo discorso lo storico ha messo in luce come l’Ucraina per la sua storia faccia parte dell’Europa e di come  alla base del conflitto in corso ci sia un’errata concezione di Putin. “Se non  capiamo la storia, ha detto Hrytsak, non finiremo mai questa guerra”. Per Putin l’Ucraina non è mai esistita e quindi si può cancellare dalla mappa. E invece, come Paese ha 33 anni ma la sua storia ne ha settemila, come le Piramidi, con una cultura che è molto legata all’Occidente, avendo fatto parte di quell’impero che dal nord arriva alla Turchia. L’errore è vedere l’Ucraina all’ombra della Russia. Perché l’Ucraina è parte determinante dell’Europa, condividendone il suo progetto di liberazione ed emancipazione, mentre la Russia guarda solo al potere dei soldi. La guerra è un pericoloso attacco alla cultura e alla libertà. Dietro l’aiuto all’Ucraina, quindi, c’è la tutela della cultura del mondo. Un discorso pragmatico, chiaro e convincente senza la retorica della commiserazione.  Con il solo neo di aver paragonato Dostoevskij a Putin. Se il primo può essere stato un uomo orribile, la sua opera è sempre e comunque un fondamentale, enorme contributo alla cultura. (Nella foto Giulia Lami e Yaroslav Hrytsak)     

mercoledì 22 maggio 2024

UN POLPO ALLA GRIGLIA? NO, ALL' UNCINETTO

L’uncinetto da qualche tempo è un ricorrente protagonista. Svariati stilisti inseriscono capi all’uncinetto nelle loro collezioni e sono in molti, uomini compresi, a trovare rilassante il lavoro all’uncinetto.  Il gelato, nel secolo scorso legato all’estate, è ormai da decenni assolutamente interstagionale, da gennaio a dicembre.  Fioriscono le gelaterie, con gusti sempre più ricercati e particolari.  Era destino che un giorno uncinetto e gelato s’incontrassero.  E’ successo a Milano con Il mondo della Rosita un’installazione, come dice il sottotitolo, mix di gelato, gomitoli e fantasia.  L’ha creata Alessandra Roveda  per Milanesi Gelaterie Artigianali di Via Cadore, dove resterà  fino a settembre. 





In primo piano, appeso al soffitto, Rosita un enorme polpo in maglia rosa all’uncinetto, con occhioni profilati di bianco e carnosa bocca rossa. Con i suoi tentacoli, lunghi oltre tre metri, tiene un enorme cono, un salvagente, una frusta, tutti all’uncinetto. "L’uncinettizzazione" non si ferma qui, ma attraversa tutto il locale. Riveste una grande torta a strati sul bancone, veste un lampadario a gocce. Ricopre mug, pupazzi, palline, enormi ciliegie e una fetta di anguria posati sugli scaffali e perfino un piccolo televisore in vetrina. Il progetto, curato da Sara Arrigoni, nasce a quattro mani da Gianluca Colaiocco fondatore di Milanesi Gelaterie Artigianali e Alessandra Roveda per una sfida(nella foto in basso): "Come rendere il piacere di mangiare un gelato ancora più soffice e colorato unendo sapore e stupore?". "L’uncinetto è un linguaggio che mi permette di trasformare il mondo intorno a me in un parco giochi da riempire con esseri magici"  spiega Roveda, laureata in disegno illustrato, che ha al suo attivo collaborazioni con Missoni, Loro Piana, Gervasoni. Per l’occasione è stato creato anche un nuovo gelato La straccia della Rosita con cioccolato bianco profumato al cocco, scaglie rosa di cioccolato Ruby e pezzi di lampone. "La stracciatella, commenta Colaiocco, non solo è il gusto più amato...ma è anche quello che ci dà più soddisfazione e con cui possiamo dare sfogo alla fantasia". 
 

domenica 19 maggio 2024

MILANESITA'

Uno spettacolo particolare Il Gino e la Gilda, "molto" liberamente ispirato a La Gilda del Mac Mahon di Giovanni Testori. Con svariate canzoni, soprattutto di Enzo Jannacci, e poco parlato, è un mix di cabaret e musical intriso di milanesità.  Giustissima quindi la scelta del Teatro Gerolamo, piccolo gioiello milanese della seconda metà dell’Ottocento. Purtroppo in scena solo ieri sera. Sul palcoscenico Emilio e gli Ambrogio, band attiva dal 2007, tra i massimi esponenti  della canzone milanese.  Con il bravissimo Emilio cantante-narrante, gli altrettanto bravi e in sintonia Nicola Caldirola al basso, Marco Cazzaniga alla chitarra, Alessio Pamovio al pianoforte e Davide Spada alla batteria.

La storia è quella dell’amore tra Gino, balordo che vive di espedienti e Gilda bellissima e conturbante donna, chiamata come il personaggio di Rita Hayworth per la sua sensualità, che vive nel quartiere intorno a via Mac Mahon. Grazie alla relazione con Gilda, e a una serie di piccoli crimini Gino si arricchisce, ma finisce anche in carcere. Qui viene mantenuto dalla Gilda, che per lui si prostituisce. Ma proprio per questo, quando esce di prigione Gino, ingrato, la ripudia, trova un’altra donna e si sposa. Rivedrà Gilda solo quando, chiamato dalla polizia, dovrà riconoscerne il cadavere. Ai racconti brevi come flash si alternano le canzoni di Jannacci perfette per entrare in atmosfera. Da L’Armando a El portava i scarp del tennis,  da Faceva il palo (nella banda dell’Ortica) a Veronica (la gioia di tutta via Canonica) alla famosa Ma mi, scritta da Giorgio Strehler per Ornella Vanoni sul carcerato che a S.Vittore non tradisce i compagni, fino all’ultima struggente M’hann ciamà di Jannacci, ideale per raccontare della polizia che chiama il Gino per il riconoscimento della povera Gilda uccisa nel parco malfamato.  Calorosi e sentiti gli applausi e grande coinvolgimento del pubblico per i bis finali.

giovedì 16 maggio 2024

ANATOMIA DI UN DRAMMA

Un viaggio nella memoria, che parla di vite rubate dalla lotta alla mafia. Questo è Il tempo attorno in prima milanese al Teatro Menotti Filippo Perego fino al 19 maggio. Una storia in parte autobiografica, perché scritta da Giuliano Scarpinato figlio di due magistrati, che ricostruisce un periodo dagli anni Ottanta fino al processo Andreotti. Con la drammaticità temperata, ma non per questo meno efficace, della formula per cui i personaggi si presentano . 


Sono cinque: Paola Randazzo magistrato (Roberta Caronia), il marito anche lui magistrato Michele Vetrano (Giandomenico Cupaiolo), il loro figlio Benedetto (Emanuele Del Castillo) e i due uomini della scorta, il giovane e scanzonato Liborio Mansueto (Alessio Barone) e il cupo e intellettuale Diego De Piccolo (Gaetano Migliaccio). Sulla scena un grande masso da cui fuoriescono elementi d’arredo, dalla scrivania  dove lavorano in alternanza i genitori al divano dove si sdraia Benedetto per vedere la televisione, al frigorifero da dove si tirano fuori cibi, ma anche libri e pesanti faldoni. Una scenografia surreale con il masso che sul finale diventa il podio dell'aula del tribunale, da dove il padre magistrato pronuncia il suo discorso. Per il resto è la quotidianità che viene rappresentata. Una quotidianità continuamente minacciata, straziata da pensieri, notizie di cronache, sospetti, che provocano contrasti e fraintendimenti, di cui chi sembra soffrirne di più è Benedetto, “costretto a crescere troppo in fretta”. Vorrebbe portare a cena fuori la mamma, godere dell’affetto e della compagnia dei suoi genitori, vedere gli amici come qualsiasi ragazzo, senza la scorta che lo rende "diverso". In lui, ma non solo in lui, si mescolano rabbia, risentimento e la domanda “Ne sarà valsa la pena?”. Una domanda che Scarpinato sembra rivolgere al pubblico “perché le ferite di una famiglia e quelle di un paese, riaperte con grazie e coraggio, possano diventare occhi vigili sul presente e sul futuro”.     

mercoledì 15 maggio 2024

RIFLESSIONI IN 3D

Quando un ingegnere incontra un creativo potrebbe nascere qualcosa di speciale. Soprattutto se i due sono la stessa persona. E’ il caso di Albi, nome d’arte di Alberto Cacchi Pessani, e dei suoi Misteri di argilla, in mostra fino al 18 maggio alla Galleria MZ di Milano.  Sono quindici composizioni in ceramica non levigate, ma lasciate con la loro gibbosità, che meglio esprimono i pensieri, sempre in corso, dell’artista. Come dei fumetti in 3D raccontano un mondo tra il passato e il futuro, frutto di attenta osservazione, sul filo della critica e dell’ironia, con il forte supporto di cultura e conoscenze, appunto, da ingegnere .

 




Che non sono solo il cuscinetto a sfera per rendere un mulinello il cervello umano. O temi come l’intelligenza artificiale. 
 Con la grande nuvola, Cloud e i suoi collegamenti-fulmini con il vero cervello. Piuttosto che lo scontro tra galassie o la vita eterna dei protoni. Sono gli attacchi alle esagerazioni del consumismo e alla “prosopopea dell’umana gente” che vuole stravolgere con "l'ascia" del pressapochismo le teorie di Copernico e di Darwin (foto in alto).  Dalla pista da sci di Dubai in pieno deserto al Mc Donald Fly–in del futuro dove da un drone si potranno comprare, serviti da un robot, i bachi da seta fritti (le due foto al centro). Non mancano i fumetti-riflessioni che vanno da nascita e sviluppo della musica, migliore invenzione dell’homo sapiens secondo Darwin, a considerazioni illustrate su monoteismi e politeismi con qualche excursus nella storia e nella letteratura, centrata su donne simbolo. Da Elena di Troia  rappresentata tra le mura di una città con intorno solo distruzione a Cleopatra, avvolta nuda in un tappeto per accogliere Cesare e le sue legioni(foto in basso). In mostra anche tre interessanti quadri dell’artista con divagazioni sull’induismo.

martedì 14 maggio 2024

PALEOLITICO E FUTURO

Una collezione archeologica datata dal paleolitico in una struttura e con un criterio espositivo che va molto oltre il contemporaneo. Senza niente d’involuto o effetti facili. Si trova a Lecce, città dalle mille sorprese e questa è una delle tante. E’ il Museo Castromediano, il più antico museo di Puglia. Lo ha fondato nel 1868 Sigismondo Castromediano, intellettuale aristocratico e antiborbonico che nella sua vita ha raccolto ogni tipo di reperto archeologico fino al prerinascimentale, tutto nel Salento. L’esterno del museo conserva inalterato l’aspetto che aveva quando era il Collegio Argento, l’interno, invece, è stato riprogettato dall’architetto Francesco Minnisi, considerato il padre della museografia archeologica italiana.

 




Il grande salone d'ingresso a pianta circolare ospita mostre temporanee sempre collegate alla zona. Attualmente sono esposte dodici strepitose fotografie del canadese Edo Burtynsky che documentano il disastro causato dalla Xylella, batterio che nel Leccese ha distrutto 21 milioni di ulivi secolari. Dal salone partono delle scenografiche rampe che salgono, aperte, fino al terzo piano. Ricordano il Guggenheim Museum di New York, ma sono perfettamente funzionali a una "teatrale" definizione degli spazi. Le collezioni, che narrano la storia del Salento, sono  suddivise, infatti, in cinque Paesaggi Culturali. Nel Paesaggio Mare è ricostruita la stiva di una nave con le anfore, lasciate come sono state ripescate. Ci sono le ancore di cui sono autentiche le parti di pietra, mentre i legni sono stati aggiunti. C’è un acquario con i pesci autoctoni di quel mare. Introdotti piccolissimi, quando raggiungono una certa dimensione vengono riportati in mare. Nel Paesaggio Terra ci sono le ossa di animali preistorici, oltre ad anfore e utensili vari. Questo settore si affaccia su un salone, dove si tengono conferenze, lezioni, concerti, con un pregevole polittico di Scuola Veneta. Molto interessanti gli altri tre Paesaggi, specie se spiegati da Basel Sai, il brillante e competente archeologo del museo. Sono il Paesaggio del Sacro, dei Vivi e dei Morti che raccontano le abitudini, gli stili di vita e anche di sepoltura dei popoli che qui hanno abitato, dai Messapi ai Romani. A completare la visita le sale dedicate al Medioevo con statue e oggetti a carattere religioso e una selezione di opere di età barocca. In fase di sistemazione le opere dell’Ottocento e del Novecento

lunedì 13 maggio 2024

QUANTE FACCE HA LA MODA?

Risposta immediata: molte. Più pensata: si deve stabilire cosa s’intende per moda. Il discorso potrebbe proseguire all’infinito. Restringendo il campo, c'è una faccia comprensiva di svariate altre, che emergono sempre più di questi tempi. La moda come cultura, perfetta per comunicare messaggi importanti, si è vista in modo chiaro in un incontro a Brindisi, sul tema L’evoluzione della moda tra inclusione e sostenibilità. Poche parole dei relatori sono bastate a evidenziare  la capacità della moda di raccontare la storia e le mutazioni negli stili di vita. Confermati dall’intervento di Carol Cordella e visivamente da alcuni abiti provenienti dall’Istituto Cordella di cui è direttore. 

 


 




E’ una scuola di moda, post diploma, di tre anni con una storia di sartoria e confezione iniziata nel 1783 con “diramazioni” fino a Los Angeles e Hollywood. Cinque abiti su manichini tra cui uno usato come costume da bagno per signore primi '900. Per quanto rappresentativi e capaci di raccontare il modo di vivere di epoche diverse, sono solo un’infinitesima parte degli abiti conservati nel piano sottostante dell’Istituto. Da capi settecenteschi in seta e velluto con mantelline, bustier, gonne ampissime, strascichi, a lunghi di Christian Dior  anni '50, a un geniale tubino di Elsa Schiaparelli indossabile in uguale modo davanti e dietro, dal tailleur Chanel a virtuosismi di Paco Rabanne ed Emilio Pucci. Capi non certo valorizzati dove sono ora, ma che potrebbero costituire materiale per una grande mostra nei saloni di importanti musei. Ma la forza della moda è anche quella di riuscire con la sua bellezza "impattante" a comunicare messaggi sociali come l’inclusività, la lotta alla violenza sulle donne, il rispetto dell’ambiente. E questa caratteristica è stata messa a fuoco da Annalaura Giannelliavvocato e consulente per importanti aziende pugliesi, nonché tra gli organizzatori dell’evento. Lei stessa ha creato un marchio Voiceat che con le sue borse, qualche gioiello e deliziose mantelline vuole far riflettere sulle donne vittime di violenza, ma anche sul maltrattamento degli animali. Attraverso la shopper con manici di bambù e ritratto di Maria Maddalena di un pittore andaluso, racconta di una donna considerata una meretrice nei più attestati vangeli e invece nobile e coraggiosa figura femminile secondo un vangelo apocrifo. O la tracolla nera con la pantera, felino in estinzione, dal dipinto di una pittrice francese del secolo scorso. O ancora, stampato sulla sacca in tela e pelle rosa, il cavalluccio marino, unico essere vivente maschio che porta avanti la gravidanza e partorisce.  E su tutti i pezzi della collezione, mantelline comprese, il logo con un profilo di donna che urla, per far sentire la sua voce. Per ammirevole coerenza, una parte dei ricavi di Voiceat è destinata ad associazioni che operano per le categorie indifese.


domenica 12 maggio 2024

REALTA' E TRAGEDIA

Può sembrare una banalità stupirsi che una tragedia scritta venticinque secoli fa affronti indirettamente un tema di attualità come quello della posizione della donna, della sua sopraffazione. Che aumenta in tempi di guerra. E invece è qualcosa di cui bisogna prendere atto, con una profonda, illimitata ammirazione per l’autore e un certo sconforto perché realtà che sembravano "pleistoceniche" si possano invece ripetere, anche se con differenti svolgimenti. La tragedia in questione è Le Troiane di Euripide andata in scena a Milano nei giorni scorsi a Progetti per il teatro, il teatro laboratorio di Roberto Cajafa. Con la regia e l’adattamento di Cajafa, che non ha tolto niente all’enfasi  della tragedia greca, ma ne ha saputo  mettere in risalto la potenza del pensiero e le considerazioni sulla donna, senza mai cadere nella retorica. 


E questo si è notato subito, anche dalla  scenografia con elementi in legno, spoglia e minimale, ma capace di rendere la desolazione, l’impossibilità a esprimersi, la dignità calpestata. Dopo un dialogo tra Poseidone e Atena, in pratica l’antefatto di quella guerra sanguinosa, appaiono le varie figure. Emergono quelle femminili, gli uomini sono di supporto. Oltre alle parole di Euripide c’è in queste donne una gestualità e degli sguardi che mettono subito in evidenza qualcosa che va al di là del dolore di essere prigioniere e aver perso figli, mariti, affetti. Certo gli uomini nella guerra di Troia hanno combattuto, sono morti, sono stati fatti prigionieri, ma chi pagherà di tutto questo sono le donne. Andromaca, che vedrà morti il marito Ettore e il figlio Astianatte, interpretata da Cristina Vacchini, Ecuba la madre di Ettore (Cinzia Damassa) che ha visto tutto il suo mondo e i suoi affetti cadere a pezzi, ma continua a lottare per la dignità. E poi c’è Elena (Francesca Mazzoni, nella foto con Cinzia Damassa-Ecuba) "la donna più bella del mondo", considerata il capro espiatorio, responsabile di aver scatenato la guerra, perché rapita da Paride quando era moglie dello spartano Menelao. Una donna che da oggetto di bramosie è diventata motivo di contesa e quindi ancora più disprezzata. Ora queste donne sulle rive dello Scamandro, prigioniere, sono "in attesa di essere scelte a sorte per i principi achei" . Oltre la regia ottima, bravissimi gli attori. D’altra parte, senza interpreti di livello e convincenti, la caduta nella farsa sarebbe facile.

giovedì 9 maggio 2024

ERA ORA

Stupisce vedere il disegno della Tour Eiffel sull’invito di un noto marchio di orologi, che di francese non ha niente. E invece, oltre a fare riferimento al ritorno a Parigi delle Olimpiadi dopo cent’anni, parla di un preciso momento della storia della Wyler Vetta, che nel 2024 festeggia i cent’anni di vita. Vuole infatti ricordare quando dal terzo piano della torre parigina, nel 1931, furono buttati alcuni orologi per dimostrarne la robustezza. Un’operazione ripetuta nel 1956 con il modello Dynawind. Le cronache, garantite da testimonianze imparziali, raccontano in entrambi i casi di qualche ammaccatura, ma di funzionamento perfetto. 





Nel 1962 il "coraggioso" esperimento, immortalato anche in un fumetto, fu replicato negli Stati Uniti, scegliendo come emblematico trampolino lo Space Needle di Seattle, nello stato di Washington, torre alta 184 metri. Con gli stessi felici risultati. Ma gli "avvenimenti-record" non si esauriscono qui. Albert Einstein indossò per dieci anni uno dei modelli shockproof. In una sua lettera alla sede di New York (foto al centro) scrive di come questo abbia continuato a funzionare quando, distratto come sempre, il padre della relatività cadde da una barchetta nel lago di Central Park. Non è un record, ma non è un fatto trascurabile che nella Coppa del mondo del 1934, vinta dall’Italia, tutti i calciatori della Nazionale indossassero un automatico Wyler Vetta. O che nel 1975 Enzo Ferrari abbia regalato un Wyler Vetta a tutti i suoi piloti. Certo meno eclatante, perché in linea con la storia di altri marchi, il gran numero dei testimonial nel mondo del cinema. A cominciare negli anni 50/60 da Vittorio De Sica, Isa Miranda, Gino Cervi, Carlo Dapporto, Marcello Mastroianni  per continuare  più avanti nel tempo con Catherine Spaak, Melanie Griffith, Richard Gere.  Tutto questo e molto altro è stato detto in un incontro a Milano con il CEO Marcello Binda e il Senior Advisor Beppe Ambrosini di Wyler Vetta. Con l’esposizione dei pezzi storici (foto in alto e in basso)e dei prototipi delle nuove collezioni con l'inedito, raffinato packaging. 

mercoledì 8 maggio 2024

VEDO ROSA

Continua tra botteghe storiche e luoghi simbolici milanesi il calendario-percorso Rosa Genoni Milano Lab, sulla prima stilista nonché prima signora del made in Italy, ideato e curato da Elisabetta Invernici. Questa "tappa" in corrispondenza con Orticola 2024 (in apertura domani) è dedicata alla rosa e si sviluppa in svariati eventi, dal 7 al 21 maggio. A dare il via l’inaugurazione della mostra diffusa Sul filo di Rosa, nella Libreria Bocca, la più antica libreria d’Italia. E'in Galleria Vittorio Emanuele a pochi passi da dove aprirà il monomarca di Tiffany, al centro dell’attenzione in questi giorni per il canone d’affitto più costoso del mondo. 




Tra libri e opere di artisti (Dalle sculture di Arnaldo Pomodoro  a installazioni come "la libreria con cartoline" di Gianluca Quaglia, foto al centro), Barbara Trestini Trimarchi (foto in alto)ha parlato e mostrato i suoi incredibili ricami, alcuni ispirati agli schizzi di Rosa Genoni. Con la quale ha in comune la nascita a Tirano, in Valtellina.  Tra i ricami anche quelli dell’abito che indossava, in tulle bianco, realizzato quindici anni fa per festeggiare i suoi 50 anni di matrimonio. Veri "capolavori ad ago" di cui ha spiegato tecniche, qualche segreto e curiosità, come la pratica maschile di quest’arte nel passato. Ma la rosa è anche un fiore, a ricordarlo Antonia Dufour (foto in basso)con le rose del suo roseto di Gavi, al confine fra Liguria e Piemonte. Rose che fioriscono solo quindici giorni all’anno, in maggio, dal profumo delicato e persistente, da cui nascono i marchi Le rose di Antonia e Dufour à la rose. Dalle creme per il corpo e per il viso al mitico sciroppo di rosa, alla marmellata. Ma anche rose da gustare, come un'insalata, ha spiegato Dufour. A intervallare piacevolmente le spiegazioni e i racconti le musiche suonate dal maestro Pierluigi Framarin del Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, su un pianoforte verticale di design. Tra i brani, immancabile La vie en rose
    

sabato 4 maggio 2024

LA SCULTURA E' MOBILE

Fa piacere sapere che Calder.Sculpting Time, in apertura domani al MASI (Museo d’arte della Svizzera Italiana) di Lugano, chiuda il 6 ottobre, perché è una mostra che tutti devono vedere . Non è solo la più completa personale dello scultore in Svizzera degli ultimi cinquanta anni, ma è soprattutto la selezione dell’essenza di Alexander Calder, come è stato detto in conferenza stampa. Le opere esposte rappresentano più che mai il legame tra “astrazione d’avanguardia, performance basata sul tempo e videoarte”.

 



Come ha raccontato Alexander S.C.Rower fondatore e presidente della Calder Foundation di New York, nonché nipote del grande artista, la curatrice Carmen Gimenez è riuscita, con ammirevole determinazione, ad avere trenta delle opere più significative, create dal 1931 al 1960, prelevandole da collezioni pubbliche e private di tutto il mondo, anche se il più ampio corpus proviene dalla Foundation di New York. Perfetto l’allestimento nelle grandi sale del museo, con la vetrata in fondo affacciata sul lago. Qui l’imponente Funghi Neri (foto in alto) e la aerea Red Lily Pads con i suoi elementi rossi, sospesi come nuvole in viaggio. Prevalgono i mobiles, la maggior parte  collocati su piattaforme tonde e bianche, come gli stabiles tipo Big Bird del 1937 (foto in basso)o gli standing mobiles. Altri mobiles sono appesi al muro come lo è il Senza Titolo subito all’entrata, con una base che ricorda le geometrie di Mondrian. Un’illuminazione sapientemente studiata fa sì che sulle piattaforme si formino delle ombre, che sembrano proseguire il movimento dei mobiles, normalmente impercettibile che diventa visibile al passaggio delle persone. Interessante a questo proposito la piccola guida che viene data ai visitatori, con il titolo dell’opera, l’anno di creazione, la collezione da dove proviene, e i materiali di cui è fatto. In prevalenza metallo, legno, spago e pittura, quando ci sono delle parti verniciate di un colore, nero e rosso soprattutto. Sulla stessa guida, accanto al simbolo del divieto di salire sulle piattaforme e di toccare le opere, che si trova normalmente nelle mostre, ce n’è un terzo, inconsueto da vedere,  con un profilo umano e il disegno di un soffio. Perché un soffio troppo forte potrebbe danneggiare l’opera.(2024 Calder Foundation, New York/Artists Rights Society(ARS), New York)  


mercoledì 1 maggio 2024

DONNE SULL' ORLO DI UNA CRISI

Si ride sovente, e con piacere, per Estate in dicembre al Teatro Menotti Filippo Perego di Milano, da ieri al 5 maggio. Ma non è mai un riso “sgangherato”, anche se sono stati molti nel pubblico della prima milanese a ridere così. Di fatto dietro le cinque donne ci sono vite con problematiche più o meno identificate e soprattutto una ricerca della felicità espressa in modi diversi. “Una saga matriarcale, qualcuno sostiene, che piacerebbe a Pedro Almodovar”. 

Scritta da Carolina Africa Martin Pajares (Madrid, classe 1980) autrice, attrice, regista, vincitrice di numerosi premi, la pièce vede in scena cinque donne di tre diverse generazioni. Sono una madre, una nonna e tre figlie, unite da un legame forte non solo di parentela, messo di continuo in discussione da atteggiamenti contrastanti, abbastanza tipici del quotidiano, ingigantiti da ripicche, piccole vendette, sensi di colpa mai ammessi. Bravissime le attrici, Fiammetta Bellone, Elsa Bossi, Sara Cianfriglia, Elena Dragonetti, Alice Giroldini. Convincenti nelle parti di una nonna fuori di testa, una madre troppo giudicante e sempre pronta ad accusare, una figlia maggiore, a sua volta mamma, superficiale e solo apparentemente risolta, una secondogenita Alicia artista di poche speranze. Irresistibile il suo discorso sull’arte, con acute prese in giro di una certa critica. E la più piccola Paloma, con molte paure fra cui quella di volare, a dispetto del nome (questa è una delle gag) che non ha ancora trovato la sua strada e vive in casa con la mamma assistendo la nonna. A parte il momento della mostra d’arte di Alicia, tutto si svolge nella casa di famiglia, anche intorno al tavolo (da immaginare). Fino all’uscita finale, decisamente colpo di scena. In qualche modo anticipato da uno strepitoso balletto delle cinque attrici sulle note di
These Boots Are Made For Walkin' di Nancy Sinatra