Un anniversario per i centodieci anni suona
abbastanza strano. Ma dato che il festeggiato è un Hotel,lo Sheraton Diana Majestic di
Milano, perfetta testimonianza della Belle Epoque, decenni di balli, cene e joie de vivre, era giusto cogliere l’occasione. Tutto è avvenuto
nel gazebo a vetrate nel mezzo del frondoso giardino, che fa da quinta a una
delle sale più cool della città per
gli aperitivi. Ad accogliere gli ospiti, personale con divise fin de siècle. Lunghe gonne nere e
lunghi grembiuli bianchi per le cameriere, abiti neri con gilé per i camerieri.
Apparecchiatura dei grandi tavoli tondi con posate in argento, bicchieri, vasellame
del periodo, autentico o ottima copia. Candelabri di rigore e bouquet di fiori. In fondo alla sala un
angolo in stile con quadro e poltrone per le foto di rito. Anche gli ospiti si
sono divertiti a vestirsi secondo l’epoca, anzi l’époque. I signori hanno scelto la soluzione facile dello smoking
o del completo scuro, mentre le signore si sono sbizzarrite attingendo, coraggiose,
dal loro guardaroba i pezzi più riecheggianti il periodo. Gonne lunghe nere, anche
a balze con camicie bianche, abiti damascati, piccoli spencer o bluse, in
velluto o ricamate. E molti accessori, copricapi in primis: dalle toque ai
cerchietti con piume o rose. Ma anche gardenie da occhiello, scialli, ventagli.
Non tutti felicissimi gli insiemi, ma nessuno border line con la maschera, pericolo sempre in agguato. Per chi non
aveva capi o accessori adatti, era stato organizzato un servizio di consulenza.
Elisabetta Invernici, giornalista di moda e beauty editor, nonché Belle Epoque connoisseur, ha messo a
disposizione parte del suo straordinario archivio, insieme a ottimi consigli. In
stile, preceduta da un intrigante aperitivo con un cocktail rosa, la cena. A
prepararla l’executive chef Luca Nania
che ha rivisitato, con creatività, il menù proposto all’inaugurazione dell’Hotel,
nell’ottobre del 1908. Brava la cantante, con un sostanzioso repertorio che si
spingeva, forse un po’ audacemente, al post-Belle Epoque fino agli anni Quaranta.
mercoledì 31 ottobre 2018
venerdì 26 ottobre 2018
UNA STORIA VERA
Non capita più in teatro di non sentire tra il
pubblico il minimo rumore. Perfino in templi sacri come la Scala si avverte il fruscio
di una gonna, il brusio della carta del programma toccata da una mano, un
leggerissimo colpo di tosse. E' accaduto ieri sera al Teatro Verdi di Milano con moro: i 55 giorni che cambiarono l’Italia (la
m di Moro è minuscola per sottolinearne lo stesso inizio del verbo morire). E non è stato per una forma di soggezione, ma perché l’attenzione era
così forte da non lasciare spazio al più
piccolo movimento. Come se questo potesse distrarre. In scena Ulderico Pesce
che con il giudice Ferdinando Imposimato, titolare dei primi processi Moro, è
autore dello spettacolo che da anni gira l’Italia. Contornato da vecchi
televisori, un tavolo con fogli e una sedia, l’attore diventa Ciro, il fratello ai tempi quindicenne di Raffele Iozzino, l’unico uomo della scorta che riuscì a sparare due colpi prima di essere
ucciso. Attraverso le sue parole si rivedono gli antefatti. Si entra in casa
Iozzino a Casola di Napoli. Si vede la mamma che dà a Raffaele una lettera per
il presidente Andreotti, con la richiesta di blindare la 130 nera di Moro e
l’Alfetta bianca della scorta, le uniche dei politici al governo a non
esserlo. Insieme a un cesto con le
prelibatezze della sua terra. Cesto che si ritroverà intonso con la lettera,
sotto il letto di Raffaele. E farà piangere per la prima volta il maggiore dei
cinque figli Iozzini. Con Ciro si rivive
il momento tragico quando dalla televisione scopre la morte del fratello. Da
quel braccio con l’orologio regalato dal nonno per la cresima, che esce dal
lenzuolo bianco. Non c’è retorica, né compiacimento per ruffianarsi la
commozione. Anzi ci sono stacchi che fanno sorridere, come il dialogo fra Ciro
e Adriana Zizzi, anche lei quindicenne, sorella del poliziotto Francesco, che
quel giorno sostituiva un collega. Con la passione per Domenico Modugno e il
sogno di diventare cantante. E i due immaginano che i fratelli negli ultimi
istanti, prima di morire, abbiano cantato La
Lontananza. Accanto al racconto del dolore delle famiglie e delle ansie per
la vita di Aldo Moro, prende forma un altro racconto, forse più
raccapricciante. S‘incominciano a intuire cose non dette, si spiegano strane
coincidenze come la presenza di un
colonnello dei servizi segreti nel
luogo del rapimento, mezz’ora prima. Si capisce perché al giudice Imposimato
vengono tolte le indagini, per darle, trasgredendo il Codice di procedura
penale, alla Procura della Repubblica. E restituirgliele solo quando Moro è
morto da nove giorni. Ed è impossibile non farsi trascinare dallo sgomento e dalla rabbia. Per
cui quando, dopo gli applausi, Pesce ringrazia e chiede al pubblico di firmare
una petizione per continuare a indagare sul caso, è difficile trattenersi da
farlo subito. Lo spettacolo in collaborazione con il Teatro Menotti è a Milano ancora stasera, per poi proseguire la tournée. mercoledì 24 ottobre 2018
BALLANDO BALLANDO

Sulla scena ci sono ben sedici attori ma non è una
commedia, tutti ballano ma non è un balletto, c’è musica ma non è un musical,
anche perché nessuno canta dal vivo. Non
c’è una trama precisa, ma c’è una storia, anzi la storia. Le Bal, approdato ieri al Teatro Menotti nel mezzo di una lunga
tournée, racconta, come dice il sottotitolo L’Italia balla dal 1940 al 2001, la storia dell’Italia dalla vigilia della seconda guerra mondiale fino al dramma delle torri gemelle. A evocare i vari decenni le canzoni più note, anche se non sempre legate fedelmente al periodo. A cominciare da E’ l’uomo per me con la voce di Mina, che fa da colonna sonora alla scena iniziale con le otte donne di varie età e corporatura, tutte vestite anni ’40, sedute nella balera, e gli uomini che entrano. Anche loro sono diversi, dal timido occhialuto a quello di mezza età con pancetta, al principe azzurro in completo luccicante, al bellone narciso. Seguono, per il periodo della guerra e il fascismo, canzoni dell’epoca, da quelle con amori tragici e impossibili ai gorgheggi allegri del Trio Lescano, a Giovinezza, con flash spiazzanti di Rita Pavone. Le scene sono veloci, solo per qualche istante le luci si attenuano fra una e l’altra. Gli attori-ballerini si cambiano rapidissimi. Dalla tuta o la divisa passano in un attimo al costume da bagno ed è Sapore di sale intonata da Gino Paoli a evocare l’atmosfera dei divertenti inizi ’60 e il passaggio dal rock al twist, questa volta cronologicamente a posto e cantato da Rita Pavone. Ora il didascalico è abbandonato, forse troppo. Nessun riferimento o poco comprensibile al Movimento studentesco o alla Lotta di classe. Solo delle pistole lasciano intuire gli anni di piombo. A sorpresa, musiche d’oltreoceano accompagnano gli anni cupi della droga e lo sballo delle discoteche. La scena è di nuovo piena di luci e colori per un party, o meglio una cena elegante, con ragazze poco vestite e disponibili e uomini di potere. Qui le citazioni sono immediate e l’ironia torna ad avere la sua parte. Il finale, dopo il terrore e l’incredulità dell’11 settembre, è poetico. Gli attori recuperano gli abiti dell’inizio e uno alla volta scompaiono. Per ritornare tutti a salutare il pubblico, ringraziarlo e invitarlo, scendendo in platea a scatenarsi con loro in Guarda come dondolo. Lo spettacolo, nato da un’idea di Jean Claude Penchenat del Théâtre du Campagnol, è prodotto da Tieffe Teatro Milano con la regia di Giancarlo Fares, sul palcoscenico anche lui. Al Teatro Menotti fino al 4 novembre, per poi proseguire in tournée.
venerdì 19 ottobre 2018
CULTURA IN PIAZZA

La conoscono in pochi a Milano, anche se ha avuto
un’inaugurazione ufficiale con sindaco, autorità e concerto a seguire. Ed è un
peccato, perché Piazza Adriano Olivetti vale proprio la pena di essere vista.
Normalmente le nuove piazze sono il prolungamento
di un palazzo firmato da un archistar
o uno spazio compreso fra edifici di
interessante architettura. Piazza Adriano Olivetti, invece, ha una sua identità
che non toglie niente alle costruzioni intorno, le valorizza, senza far loro da
spalla. Insomma è un piacevole insieme, non nato per caso, ma che rivela
un’intelligente progettazione dietro. E fa ancora più piacere che questa piazza
sia stata intitolata a un grande imprenditore, un industriale che, non solo è
stato uno dei primi a privilegiare la cultura e a dare spazio ad architetti e
designer per le sue fabbriche, i negozi e anche i prodotti. Ma negli anni bui dei padroni delle ferriere si è occupato del benessere fisico e
intellettuale dei dipendenti, operai, impiegati e dirigenti. Un esempio d’illuminismo
imprenditoriale, forse più riconosciuto all’estero, che in questi momenti di prevalenza del becero è difficile
pensare sia esistito. Ritornando alla piazza, si trova in quella ex area
industriale intorno alla Via Ripamonti, ora in totale trasformazione. Da un lato
c’è un enorme palazzo, la cui presenza è alleggerita dalla sagoma a triangolo e dall’effetto riflettente dei vetri in facciata. Di fronte c’è il retro
della Fondazione Prada, una ex distilleria di cui il genio creativo di Rem
Koolhaas è riuscito nella ristrutturazione a conservare l’aspetto di
archeologia industriale. Interrotto dalla nuova avveniristica torre e dalla
palazzina dorata, che con l’aiuto del sole dialoga e gioca con i riflessi del
palazzo di fronte. Un terzo lato è uno skyline di fabbriche basse, mentre il
quarto continua con un giardino che affianca un nuovo palazzo a gradinate.
Quarantacinque alberelli autoctoni della zona nord del Po, che come si vede nel rendering presto saranno più folti,
sono disseminati dappertutto, come le panchine in legno e le fontane. Dal lato della Fondazione Prada c’è un
sentiero a zig zag in un prato con erbe e piante selvatiche, volutamente
lasciato incolto. A fiancheggiare, invece, il palazzo di vetro e a raddoppiare
l’effetto specchio due immense vasche di cui una giallastra, per le erbe
intorno. Una scelta quella della vegetazione spontanea e dell’acqua non assolutamente casuale, ma per
raccontare la presenza di fontanili, una
volta, in quella zona di Milano.
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