giovedì 26 maggio 2016

(C)REATO AD ARTE


Normale la difficoltà di descrivere le sensazioni davanti a un’opera d’arte. Inusuale, invece, la difficoltà di descrivere l'opera stessa. Come accade per Tutela dei beni: corpi del(c)reato ad arte di Alessandro Bergonzoni. Non è casuale e fa pensare che  l’emozione dell’osservatore faccia parte di quello che tecnicamente è definito esposizione-proiezione-intervento. Perché, come dice anche l’autore, non è uno spettacolo, ma qualcosa di più vicino alla performance, forse.   E’ stato oggi nella Sala della Passione della Pinacoteca di Brera. Dura 25 minuti e si ripete tre volte nella giornata. Il titolo e il sottotitolo Il valore di un’opera, in persona potrebbero fare pensare ai soliti intelligenti giochi di parole di Bergonzoni. Come anche quello che dice la sua voce all’inizio, nella sala completamente buia e chiusa. Le analogie, gli accostamenti per assonanza, l’assurdo che diventa reale. Quel Vi voglio un gran bene seguito da un bene storico, un bene comune, culturale. Oppure quelle frasi perentorie, solo apparentemente surreali come L’umanità ha la più immensa collezione d’arte privata: gli esseri viventi. Poi arriva la luce, entra Bergonzoni e fissa un grande rettangolo proiettato sull’unica parete senza dipinti.  Emerge una macchia in basso, forse una bocca. Sembra di intravvedere una porta e la bocca è solo un’ombra, e a poco a poco esce drammatica, penetrante, angosciante quella foto del viso torturato di Stefano Cucchi, che abbiamo vista e rivista. Qualche attimo e scompare, sul muro ritorna il rettangolo di luce bianca. L’autore resta lì. Si sente la sua voce che parla di confine. Tra il bello e il male? Quando ti sentirai abbattuto tra le bellezze di un quadro ritrovato del ‘600 e un morto d’incuria della cronaca del ‘900? Ed ecco il discorso della tutela, del rispetto. Quale confine tra un capolavoro classico e un corpo che rappresenta l’anima? Da un lato si vorrebbe che queste frasi, apparentemente sconnesse, continuassero per farci riflettere, dall’altro ci piacerebbe che la voce tacesse, per non sentirci in colpa. E forse anche quell’impossibilità del pubblico di riuscire a stare nel completo silenzio senza tossire, muoversi, bisbigliare è una forma di difesa.    

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