Chi di questi tempi sostiene che
l’arte si è fermata a Canaletto o a
Leonardo non è un incolto o un bieco passatista. Vuole solo farsi notare e pensa ingenuamente
di essere dirompente. Certo qualcuno che ha da ridire sulle opere contemporanee
s’incontra, ma è sempre più un caso isolato. Non ci vogliono studi speciali per
capire che i cambiamenti nell’arte ci sono sempre stati e fanno parte
dell’evoluzione.
Forse di fronte a My bed
di Tracey Emin o ai monumenti impacchettati di Christo pochi sono colpiti dalla
Sindrome di Stendhal come può capitare davanti a La Ronda di Notte o a Guernica.
Ma è anche vero che dietro a installazioni e video c’è un pensiero profondo,
una critica al potere, una denuncia sociale, un’esplosione di sentimenti. E non
occorre essere degli esperti per emozionarsi. Per essere spinti ad approfondire
l’argomento, per cercare di capire cosa l’artista voleva dire. Si è un po’
stupiti, quindi, quando ci si trova davanti a The whether line progetto-mostra di Lizzie Fitch e Ryan Trecartin
(Usa 1981, entrambi) alla Fondazione Prada di Milano fino al 5 agosto. Già il
titolo che gioca su l’intraducibile scambio di parole di whether (se) e weather (tempo
meteo) crea qualche problema. L’impatto iniziale è forte: una grande gabbia
con un percorso imposto, che continua ancora ingabbiato all’esterno del
padiglione principale e in quello di fronte. Il sottofondo sono rumori, strilli,
umani e non. L’impressione è claustrofobica, si pensa al dramma dei confini,
della perdita della libertà, dei limiti. Ma ci si sbaglia. Lo scenario cambia e
ci si trova davanti a un’enorme costruzione in legno, un fienile dell’West. E,
infatti, i due artisti hanno eretto una simile costruzione in una campagna
dell’Ohio dove hanno vissuto. Nelle stanze le immancabili rocking chairs dello scenario western sono piazzate di fronte a
video abbastanza incomprensibili, anche secondo un noto critico d’arte. I
personaggi sono spesso travestiti, i dialoghi qualunque, tutti si muovono in
modo volgare e forzato. Nessuno è sufficientemente connotato per essere
realistico. Nessuno è sufficientemente eccessivo per essere surreale. Raccontano
un mondo, certo, ma non si capisce perché. Il riferimento è alla desolazione, allo
squallore, ma anche all’horror alla Stephen King. Ci si aspetta che accada
qualcosa, ma non succede. Completano la mostra una serie di film dei due
artisti e sono un prolungamento di incomprensione.
Certamente un progetto grandioso in termini di lavoro, materiali, tempi di
realizzazione. Un po’ deludente confrontato a opere della Fondazione
straordinarie, come Carne y Arena di Alejandro
Inarritu sull’emigrazione clandestina in Usa (blog 28 settembre 2017). O ai
molti pezzi della collezione permanente o alla mostra Surrogati: un amore ideale , in corso all’Osservatorio (blog 23
marzo 2019).
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