Moni Ovadia sul palco con un microfono in mano per
un’ora, con solo un piccolo intervallo musicale. Nessuna pausa, nessun momento
di stanchezza, nessuna ripetizione o frase sopra le righe. Una platea
attentissima, che non si è distratta nemmeno per un attimo. Questa la sintesi della
serata organizzata allo Spazio Oberdan (nella foto), a Milano, dalla Fondazione Verga, che
da quarant’anni si adopera per l’integrazione sociale di migranti e rifugiati. Il
migrante che è in noi, stranieri con noi stessi il titolo. Importante certo,
anche enfatico, ma perfetto per il contenuto, che sviluppava in pieno. Il tono
sempre un po’ sostenuto, com’è nelle corde di Ovadia, ma lontano da qualsiasi
vena retorica, facile in quest’argomento e soprattutto utile per coinvolgere la
platea. Niente false modestie, ma un Io sempre in prima fila, funzionale per
rendere più vera, più sentita, meno artefatta l’esposizione. Perfettamente
calibrato l’intervento dell’ottimo fisarmonicista Albert Florian Mihai, all’inizio,
alla fine e a metà del discorso. Non solo bravo, ma in linea con la serata
perché rom e romeno, proprio come Ovadia è ebreo e bulgaro. Considerazioni sul
mondo, sulla sua evoluzione, sulla storia dei Paesi e su come la loro forza stia
proprio nel crogiuolo di provenienze, di lingue, di esperienze e testimonianze diverse.
E gli Stati Uniti, che ora si vogliono trincerare dietro ai muri, sono proprio
un esempio di come, grazie alle immigrazioni, sono diventati la potenza più
grande nel mondo. Una serie di considerazioni raccontate con semplicità e
documentate dalla conoscenza della storia, di fronte alle quali Aiutiamoli
a casa loro o Prima gli italiani
diventano delle battute, non tanto agghiaccianti perché totalmente prive di
umanità, quanto espressione di una completa mancanza del senso del ridicolo.
L’humour del relatore, sempre costruttivo e accompagnato da una forte autoironia, non ha risparmiato
nessuno. A questo proposito è stato
difficile per il pubblico trattenere gli applausi, ma è stato impossibile
contenerli per due frasi. La prima in
cui Ovadia ribadiva, con veemenza e orgoglio,
il fatto di essere ebreo, ma non israeliano. E la seconda quando
smontava la comune convinzione della supremazia intellettuale degli ebrei,
facendo riferimento a Netanyau.
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