molto vicina al pubblico, ci sono vari personaggi. Apparentemente sono degli stereotipi.Invece ognuno ha reazioni e una vitalità a sorpresa. C’è l’anziano rockettaro
delle isole Faroe che fa della sua
chitarra la coperta di Linus, c’è la vedova che ricorda i suoi lutti,
interpretata da un attore, c’è un ragazzo colombiano alla ricerca del padre con
gli occhi coperti. C’è la bionda casalinga romena, sempre pronta a pulire e a guardarsi allo specchio, che ogni tanto
tenta di soffocarsi con un sacchetto.
C’è la rifugiata cecena che parla di guerre, di esperienze tragiche, per
lei quotidianità. C’è
un’inquietante vecchia, una Madonna Nera
che emette versi strani e ha legami con tutti, anche con l’avvocato danese in
completo azzurro e la violinista di strada italiana. C’è un fantoccio che ora è
bambino, ora uomo, ora vivente , ora morto. E
ci sono i due mercenari in tuta mimetica e volto coperto. Intervengono
nell’azione, ma non fanno parte della
combriccola, sono degli estranei a ricordare il lato nero delle cose.
Gli attori si muovono con grande destrezza, cantano e sono coinvolgenti,
ballano e riescono a essere eleganti nel grottesco. Tutti perfettamente coordinati dalla regia di Eugenio Barba. Nonostante i
suoi 50 anni di vita l’Odin Teatret , nato in Norvegia ma subito trasferito in Danimarca e
diventato Nordisk Teaterlaboratorium
(con i suoi 25 membri che provengono da dieci paesi e tre continenti), è sempre
attuale, aggiornato, anzi avanti sulle tematiche, puntualizzante, senza
sfiorare la retorica e soprattutto senza la presunzione di volere dare un
messaggio. Anche se il messaggio c’è. Quell’invito a guardarsi intorno e
scoprire che le figure estremizzate sulla scena fanno parte di un mondo vero,
di una vita cronica. Con tutti i suoi
drammi, proprio come una malattia che non guarisce mai.
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