Quindicimila testimonianze: pezzetti di vita quotidiana, piccoli monologhi, tragedie di un minuto. Tutto elaborato e miscelato da Gabriele Salvatores nel film: Fuori era primavera, andato in onda ieri in prima serata su Rai 3, dopo l’anteprima alla Festa del Cinema di Roma. Uno straordinario lavoro che documenta il vissuto degli italiani nel primo lockdown dal 24 marzo al 30 maggio.
Una situazione estrema vista come un episodio limitato, che invece è continuata e di cui è difficile vedere la fine. “Se dovessi girare il film adesso, lo farei diverso“ ha detto il regista. Quella che doveva essere una parentesi è diventata una quasi routine, che ha cambiato anche i sentimenti della gente, il modo di vedere le cose. Perché, come ha spiegato Salvatores, la cinepresa racconta il fuori ma anche il dentro di chi riprende. Si augura che chi vede il film possa ancora sentire “il senso di solidarietà e vicinanza che ci ha accompagnati durante il primo lockdown… e di cui abbiamo bisogno tutti”. Spettacolare l’inizio con gli stormi di uccelli, i fenicotteri sui laghi, le centinaia di pinguini sulla banchisa polare, le folle nelle piazze. Immagini che sembrano voler dare il senso di un risveglio di primavera, ma in realtà pongono l’attenzione sul pianeta che stiamo distruggendo. Momenti di vera commozione si alternano ad altri in cui si sorride o perfino si ride. Ci sono le corsie di ospedale dove medici e infermieri scrivono i loro nomi sulle tute per riconoscersi e tengono la mano di chi sta morendo, dando l’illusione di essere la persona cara. Ma c’è anche la ragazza incinta, pronta ad andare a partorire con l’autocertificazione scritta sul pancione. O l’anziana signora che corre sul terrazzo, il ragazzo che si arrampica sul tetto per vedere in lontananza la casa della fidanzata. I bambini che sul lettone giocano con le mazze a combattere il virus. Tutto si svolge in Italia con solo qualche flash del ricercatore italiano al Polo Nord, dove la solitudine c’è, ma non per il Covid, che non è arrivato, e da temere c‘è l’orso bianco. Le piazze e le strade vuote, straviste, ci sono certo, ma senza indugi che suonerebbero scontati. Spesso all’immagine di una città deserta segue quella dei ragazzi delle consegne. I loro commenti di triste ironia fanno da filo conduttore. C’è la ragazza che canta sul terrazzo della casa di ringhiera e i ballerini che per tenersi allenati si esercitano sul pianerottolo di casa, in mancanza di uno spazio adatto per i volteggi. Dentro ognuna di quelle figure si ritrova un poco di noi, di chi è stato più fortunato e di chi lo è stato meno, ma il senso della solidarietà alla fine prevale.
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