giovedì 30 ottobre 2014

COLORE COLORE COLORE


Le foto in bianco e nero sono spesso ritenute più intense, più artistiche. Tutte le donne, superati i 15 anni di età,  hanno almeno un capo nero nell’armadio. Il tubino nero da sempre è giudicato l’espressione incontestabile

dello chic o per lo meno il capo con cui non si sbaglia mai. Si è inneggiato per decenni alle case tutte bianche o a quelle tutte nere. Eppure quando si sente dire che i cani vedono grigio, cosa peraltro tutta da dimostrare, ci si impietosisce per loro, come avessero una menomazione. I daltonici sono visti come persone sfortunate. Insomma quando il colore non c’è, se ne sente la mancanza. Non ci si stupisce  se ripetutamente nella moda e nel design si sente parlare di tendenza al colore o di ritorno al colore, anche se c’è sempre stato. L’idea di un convegno sul colore quindi non è così banale e privo di interesse come potrebbe apparire inizialmente. Di certo non lo è stato  “Dialogare con il colore” oggi alla Triennale di Milano, organizzato da Color Coloris, un’associazione che mette in relazione professionisti di diversi settori in cui si applica il colore. Dall’industria all’arredamento, dalla moda all’arte, all’artigianato. Sono intervenuti designer, stilisti, architetti, disegnatori di tessuti, illustratori ma anche chef e food designer, semiologhi,  pasticceri, una cantafiorista. Come Rosalba Piccinni ,che abbina  composizioni floreali, in cui il colore è importantissimo, al canto  per serenate contemporanee. La giovane designer di gioielli Beatrice Bongiasca  ha spiegato come il colore serve a trasmettere un messaggio e la scelta dipende dall’istinto. Tra i colori protagonisti il rosso considerato il colore dell’Italia per eccellenza, come è emerso dalla proiezione dello spot di lancio della 500 Fiat. Come ribadiscono il rosso Valentino, il rosso   Ferrari, il rosso pompeiano.  Elio Fiorucci ha parlato della sua attrazione per il rosso, che attribuisce al suo spirito “bambino”. Oltre che per i colori fluo. Uno dei primi a usarli, ispirato da Andy Warhol. L’artista americano alla domanda da dove provenisse l’attualità delle sue opere gli aveva risposto “Le insegne luminose e i neon di New York”. 



mercoledì 29 ottobre 2014

GRANDI, GRANDISSIMI ANZI MAGNUM

 David Seymour
 George Rodger
 Robert Capa

Chissà quanti hanno deciso di fare i fotografi dopo aver visto le loro foto. Per molti, e sono i più, la parola magnum non rimanda  all’aggettivo latino e nemmeno alla bottiglia di champagne sovradimensionata. Anche se Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, George Rodger, David Seymour “Chim” proprio da quella  bottiglia hanno preso lo spunto per il nome dell’agenzia fotografica più famosa del mondo. Nasceva così il 22 maggio 1947 la Magnum Photos Inc. una cooperativa fondata sulla tutela del lavoro del fotografo e sul rispetto dei diritti fotografici. Sicuramente è il primo atto  che ha dato il giusto riconoscimento alla professione. Tutto il resto poi è noto. Agli inizi, i quattro prendono ognuno in carico una zona del mondo in cui “operare”. E sono proprio gli esordi dell’agenzia che sono raccontati nelle 120 foto di “La nascita di Magnum”, da domani all’8 febbraio  al Museo del Violino di Cremona. Molte immagini sono notissime e sono state oggetto di svariate esposizioni, altre lo sono meno, ma è comunque la prima volta che le foto degli esordi di tutti e quattro vengono esposte insieme. Ecco quindi di Seymour, che sceglie l’Europa come sua area, dalla foto dei preti che giocano al pallone al reportage sui bambini bisognosi commissionatogli dall’Unicef. Dagli strazianti ritratti dei rifugiati e le immagini di guerra di Robert Capa, all’esperienza indiana con incontro del Mahatma Gandhi di Cartier-Bresson, agli incredibili scatti delle più sperdute tribù africane di George Rodger.
 Henri Cartier-Bresson
Una mostra sicuramente da non perdere e anche una buona occasione per visitare il nuovo Museo del Violino. Più che una sede di esposizioni è un polo culturale con dieci sale per conoscere la storia del violino, attraverso gli strumenti dei grandi maestri cremonesi (Stradivari, Amati, Guarneri), gli attrezzi di bottega e i disegni. Oltre a un laboratorio con installazioni multimediali anche per i bambini e un auditorium dalla superba acustica per concerti e audizioni con i violini della collezione. 

venerdì 24 ottobre 2014

ADDIO ALLA FIRMA


Che la firma nella moda abbia perso quasi completamente il suo appeal è risaputo. Si assiste a un fenomeno  esatto contrario di quello che aveva portato alla dittatura della firma. Agli inizi del prêt-à-porter, era  qualcosa che si conquistava con la creatività e la qualità tanto che  acquistando un capo con quella certa firma si aveva la garanzia  del suo valore.  Poi la firma ha incominciato a prendere spazio, è stata esibita, esaltata, fino a diventare elemento decorativo e perfino  la motivazione principale all’acquisto.  Si comprava un certo capo o un certo accessorio non perché era ben fatto, donante, esteticamente attraente, ma perché aveva quella data firma. Da qualche anno si sta assistendo più che a una marcia in dietro, a un percorso contrario.  I marchi  vogliono farsi notare, e quindi farsi comprare, per la creatività e la qualità, che significa realizzazione accurata con  materiali selezionati. E su questi, soprattutto, si gioca la partita più interessante. Non ci si limita a cercare l’eccellenza, ma si punta alle lavorazioni particolari. Che presuppongono alta artigianalità, ma anche inventiva. Per reazione all’ esibito chiassoso del passato si insegue il raffinato da scoprire. Non per un giochetto fine a se stesso, ma per  l’ estetica e il confort. C’è chi propone, e sono molti, il denim in filati preziosi o il jeans con rifiniture  da sartoria, la camicia da lavoro ma in seta. Ci sono addirittura brand come  Distante Cashmere (v.foto), dell’azienda fiorentina Marielle, che hanno esordito con  questi presupposti. Ed ecco in prezioso cashmere la tipica felpa con cappuccio e zip o l’abito tunica ideale per un cocoon chic o, veri virtuosismi, la giacca  effetto neoprene o lo spolverino che sembra una pelliccia e non solo perché è caldissimo.  

lunedì 20 ottobre 2014

MADE IN ITALY? A MONTECARLO


Non era semplice trovare qualcosa di forte che facesse riferimento all’arte e alla natura, ma desse il senso  dei valori della tradizione e avesse anche un occhio aperto sul futuro. Perché era questo che si voleva per presentare visivamente il  Mese della cultura e della lingua italiana nel Principato di Monaco (dal 1° al 31 ottobre), rassegna alla quarta edizione, ideata dall’ ambasciatore italiano nel Principato, Antonio Morabito.
Ci sono riusciti i ragazzi del corso multimediale dell’Accademia di Belle Arti di Cuneo, scelta insieme a Mondovì, Isernia e Matera come città ospiti della manifestazione.  Gli studenti hanno creato un promo introduttivo, che funge da sigla per gli eventi, uno spot di 30 secondi e tre brevi video (v.foto) in cui viene interpretato il concetto di cultura, con riferimenti precisi alle precedenti edizioni. Un compito impegnativo anche per la varietà degli eventi che si svolgono. Si spazia dall’arte, con mostre di contemporanei oltre che di De Chirico e Guttuso,  alla letteratura con presentazione di libri, allo spettacolo con Monica Guerritore in scena, debutto di nuove pièces teatrali, balletti, concerti,  all’artigianato  con le creazioni ecosostenibili dall’Umbria,  alla moda con la sfilata di Sarli, all’enogastronomia.
L’accademia di Cuneo, nata nel 1991, ha una sua sede nel Principato per l’organizzazione di eventi. Il compito dei ragazzi  non si è fermato agli spot ma ha avuto una partecipazione attiva nei contenuti. Il 27 ottobre, infatti, presentano un progetto di restauro del patrimonio urbanistico e sempre nella stessa serata sovrintendono all’organizzazione di una sfilata di moda-spettacolo, realizzata in collaborazione con la Camera della Moda Italiana e i Maestri Vetrai degli ori di Venezia.

giovedì 16 ottobre 2014

TEATRO DI VITA


Non si deve cercare di capire, si deve guardare, ascoltare, perché qualcosa, anzi molto, resterà nella mente, negli occhi, a qualcuno anche nel cuore.  Sono così gli spettacoli dell’Odin Teatret.  E “La vita cronaca”, al Teatro dell’Elfo di Milano fino al 25 ottobre, non si distacca  dallo schema.In scena,

molto vicina  al pubblico, ci sono vari personaggi. Apparentemente sono degli stereotipi.Invece ognuno ha reazioni e una vitalità a sorpresa. C’è l’anziano rockettaro delle isole Faroe  che fa della sua chitarra la coperta di Linus, c’è la vedova che ricorda i suoi lutti, interpretata da un attore, c’è un ragazzo colombiano alla ricerca del padre con gli occhi coperti. C’è la bionda casalinga romena,  sempre pronta a pulire  e a guardarsi allo specchio, che ogni tanto tenta di soffocarsi con un sacchetto.  C’è la rifugiata cecena che parla di guerre, di esperienze tragiche, per lei quotidianità.  C’è un’inquietante  vecchia, una Madonna Nera che emette versi strani e ha legami con tutti, anche con l’avvocato danese in completo azzurro e la violinista di strada italiana. C’è un fantoccio che ora è bambino, ora uomo, ora vivente , ora morto. E  ci sono i due mercenari in tuta mimetica e volto coperto. Intervengono nell’azione, ma non fanno parte della  combriccola, sono degli estranei a ricordare il lato nero delle cose. Gli attori si muovono con grande destrezza, cantano e sono coinvolgenti, ballano e riescono a essere eleganti nel grottesco.  Tutti perfettamente coordinati  dalla regia di Eugenio Barba. Nonostante i suoi 50 anni di vita l’Odin Teatret , nato in Norvegia   ma subito trasferito in Danimarca e diventato  Nordisk Teaterlaboratorium (con i suoi 25 membri che provengono da dieci paesi e tre continenti), è sempre attuale, aggiornato, anzi avanti sulle tematiche, puntualizzante, senza sfiorare la retorica e soprattutto senza la presunzione di volere dare un messaggio. Anche se il messaggio c’è. Quell’invito a guardarsi intorno e scoprire che le figure estremizzate sulla scena fanno parte di un mondo vero, di una vita cronica.  Con tutti i suoi drammi, proprio come una malattia che non guarisce mai.