martedì 28 febbraio 2012

GIOVANI STILISTI, CRESCONO?

Moi  Multiple

Come da vari anni l’ultimo giorno della settimana della moda milanese è dedicata agli stilisti emergenti o appena emersi. Un’ottima iniziativa della Camera Nazionale della Moda Italiana (CNMI) assolutamente “coerente con i tempi”. E’ apprezzabile l’entusiasmo dei giovani talenti, ma stupisce l’insistenza a proporre sempre qualche capo improbabile, senza pensare al mercato. Chi può indossare una pelliccia tagliata a listelli o portare un tubino insaccato in un PVC trasparente da vuoto spinto o  mettersi un abito con uno strascico,  che anche Lady Gaga troverebbe inopportuno sul red carpet?  Le sfilate si sono aperte con Chicca Lualdi BeeQueen (vincitrice nel 2009 del concorso, promosso dalla CNMI, Fashion Incubator). Molto bianco in alternativa  a un rosa pallido, linee misurate e un uso della pelliccia innovativo e smitizzante. Cristiano Burani propone abbinamenti di materiali in contrasto come neoprene e voile di seta,ma insiste, forse troppo, sul “coraggio di osare”.
 Mauro Gasperi
Sotto al tendone del Castello Sforzesco hanno fatto  il loro debutto i vincitori di Next Generation selezionati tra cento candidati e i  tre New Upcoming Designers di N-U-De, usciti da concorsi, ma non nuovi alla passerella.  Mauro Gasperi predilige il nero vivacizzato da profili, dettagli a sorpresa, inserti in colori forti. Da Moi Multiple, di Anna Francesca Ceccon, il fil rouge è il fiocco: sul miniabito con volant, sul cappotto cammello,perfino sul giubbotto. Francesca Liberatore si sbizzarrisce nei mantelli: con martingala un po’ settecentesco, bianco con marsina, nero asimmetrico. Per Next Generation Ludovico Loffreda si ispira al paesaggio urbano e punta sulla pelle. Harunobu Murata (Tokyo  1988) è per la linearità, non minimalista. Camille Pfister, di Parigi, ama i drappeggi e i bandage. La donna di Santo Spada è un po’ irreale nei suoi avvolgenti chiffon.
La giornata si è conclusa con le sfilate  di due  stranieri, giovani ma già ben “emersi”: il russo Sergei Grinko e Basharatyan V, dove V sta per Veronica,  direttore creativo del brand nata a Mosca da famiglia armeno-balkaria, naturalizzata inglese.           

lunedì 27 febbraio 2012

INSIEME


 Collezione Lorella Signorino

Nella moda si parla tanto di “fare sistema”per affrontare  il difficile momento. Poi nella pratica ognuno guarda al suo campicello e se può mettere una cattiva parola per il concorrente lo fa volentieri. Gli stilisti non perdono l’occasione per denigrare il lavoro altrui, ironizzano, criticano e quando proprio non hanno argomenti per attaccare, puntano sul fatto di essere stati copiati. In un oscuro pantalone realizzato magari sei stagioni fa, in un certo colore, in un trascurabile dettaglio che “non ha segnato un’epoca”. Anche se qualcosa di vero può esserci, le critiche non portano a niente.  Le grosse griffe perdono d’immagine, di credibilità, risultano goffe, ma possono permetterselo.
Le medie e le piccole imprese invece no. Per loro il non farsi la guerra è condizione sine qua non per la sopravvivenza. Se poi mettono insieme le forze, i risultati sembrano garantiti. Su questo presupposto è nato, a Milano, Filzi 5, (dall’indirizzo), da un’idea di Marco Casoni. In un palazzetto di quattro piani hanno i loro show room brand di alta qualità, che in questo modo mettono in comune i servizi. Da Lorella Signorino, brillante imprenditrice e creativa stilista, con la collezione che porta il suo nome, dove la ricerca gioca un ruolo importante. E con la linea di accessori Love is Love. Mc Gregor  mitico nome dello sportswear nato a New York nel 1921. Gattinoni Planetarium: borse, valigie e accessori vari con la stampa di un cartografo del Seicento, a cui si è aggiunta di recente una linea d’abbigliamento. To be G l’azienda di Guccio Gucci, pronipote del fondatore della maison fiorentina, che nei suoi accessori recupera le tradizioni artigianali. Massimo Trulli con una pelletteria dalle stampe inedite, realizzata in un numero limitato di pezzi.  

sabato 25 febbraio 2012

IL BORDEAUX E' IL NUOVO NERO?


Stivaletto di Gianvito Rossi 

Chi non è dell’ambiente di fronte a certe frasi degli “addetti alla moda” ha sempre  un piccolo shock.  Una delle più ricorrenti degli ultimi anni,  uscita dalla bocca di persone dalla insospettabile normalità è “il grigio è il nuovo nero” e in un crescendo “il cammello  è il nuovo nero” fino ai parossistici “il rosso è il nuovo nero” o addirittura  “il bianco è il nuovo nero”.  La frase può davvero creare imbarazzo nell’ascoltatore impreparato. In dubbio se interpretarla come uno strascico di surrealismo o un primo sintomo di follia. E invece dietro c’è  un ragionamento,  che non fa una piega. Proprio come l’iter dell'azzurro di un insipido golfino raccontato dalla perfida Miranda  in “Il diavolo veste Prada  alla “grassa ragazza” che è poi la bella Anne Hathway."Nuovo nero” sta a indicare un colore assoluto, adatto a tutte le situazioni, universale, dominante e soprattutto che fa tendenza. Che si impone senza prevaricare, che non stanca, che si accompagna perfettamente con i suoi simili. Due neri diversi non stonano vicini, diversamente da altre tinte.  Il bordeaux è il nuovo nero, lo ha detto  Alessandra Facchinetti brillante stilista ex Gucci, ex Valentino, responsabile ora di Uniqueness la collezione interstagionale che si rinnova settimanalmente con qualche new entry ed è  in vendita solo su internet www.uniqueness.it . Ha capi che vanno dai 100 ai 900 euro (per gli abiti da sera), e molti bijoux con prezzi  dai 190 ai 420 euro. Facchinetti l’ha detto mostrando il cappotto  bordeaux e ha motivato ragionevolmente  l’espressione “il nuovo nero” con il fatto che è l’unica tonalità scura in una collezione sul beige, dunque chiara.
Che il bordeaux sia il nuovo nero non lo pensa solo lei. Ha dominato la sofisticata passerella di Silvio Betterelli. Da Genny ha colorato gli abiti  e perfino le morbide pellicce. Si è visto  nelle sete stampate e nei parka in maglia di Massimo Rebecchi, negli inediti tessuti animalier dei deliziosi tubini di Mantù.  E di riflesso negli accessori. Dagli stivali revival Seventy di Jimmy Choo ai polacchini fetish di Gianvito Rossi.

mercoledì 22 febbraio 2012

TUBINO DEMOCRATICO


“Un tubino nero, un giro di perle e sei sempre a posto”. La frase suona quasi caricaturale, può essere letta come l’emblema della banalità a parole. Eppure quell’abito ha davvero avuto una funzione rassicurante,  meglio di qualsiasi analista. Poteva  tenere lontano dall’errore, sconfiggere la paura di essere fuori posto, anzi non abbastanza a posto. Ha esaudito brillantemente il desiderio istintivo di far parte di un gruppo, di essere accettati, di uniformarsi.
 La petite robe di Chiara Boni
Ora si continua a cercare la stessa sicurezza attraverso il vestire,  ma si punta sul farsi notare. La protezione  arriva dalla griffe, dal brand,  dal salvagente del total look. Più si è targati, più si è sicuri di non sbagliare e di piacere.
Una piccola mostra fotografica a Milano,  nella settimana della moda,sembra sfatare completamente questa visione e fa riflettere. Si intitola “La nuova Milano”, sottotitolo “one dress many thoughts”,volutamente in inglese, lingua dell’internazionalità. Perché la nuova Milano è quella multietnica. Da vedere i ritratti di ventuno donne  con addosso proprio quel tubino nero, o meglio la Petite Robe, come la chiama Chiara Boni, la stilista  che l’ha creata e che è anche la fotografa e  la responsabile del casting.   E l’abito le accomuna. La  giovane piercer milanese e la sarta teatrale siberiana, la ristoratrice cinese e la regista uzbeka, l’agente letterario italiano e la curatrice d’arte sudafricana.  Donne diverse, qualcuna famosa, qualcuna di potere , qualcuna che lavora con il corpo, qualcuna con le mani . Ognuna di loro interpreta la petite robe a  modo suo  e curiosamente ognuna mantiene intatta la propria personalità. L’abito le veste tutte, ma proprio perché è democratico lascia a ognuna essere come vuole, e quindi molto diverse tra loro. Per concludere con una banalità come si è cominciato.  L’abito non fa il monaco.

sabato 18 febbraio 2012

TUTTO E’ ICONA


Jackie a Capri

Le icone sono dappertutto. Le indossiamo, le tocchiamo, ci conviviamo. Un tempo, neanche tanto lontano, erano immagini sacre  dipinte su tavole in legno, della Russia del XVII secolo, note per generare un mercato di falsi. Poi l’icona è diventata un modo per definire una persona o un oggetto speciale, qualcosa o qualcuno di rappresentativo che sfiorava il mito. Poi, a  poco a poco, tutto si è reso “iconabile”.  L’icona può essere un tema ispiratore, una musa ma anche una presenza immancabile nel quotidiano. Qualche mese fa è uscita, pubblicata dalla Mondadori, una rivista Icon, con servizi su abiti, persone, auto nuove icone.
Le icone di stile sono le più contemplate, spesso effimere come spesso effimeri sono gli stili. Le più attendibili, davvero espressione di un mondo, un periodo, appunto uno stile, si omaggiano con mostre, festival, borse. Lancel ha dedicato la sua prima borsa ecologica a Brigitte Bardot, icona di joie de vivre, audacia  e libertà.  A Jacqueline Kennedy e Audrey Hepburn sono stati dedicati negli ultimi decenni locali, borse, scarpe. Alla prima da Tod’s lo scorso agosto i mocassini con gommino, la  D bag e un bracciale tutto turchese, come il mare di Capri:   donna icona nel paese icona.   “Icons” è il titolo di una  mostra di Elliot Erwitt  che ha girato con successo l’Italia . Accanto a Marilyn, Kennedy, Che Guevara ci sono dieci delle sue straordinarie foto di cani. Icone animali?  Gli stilisti Aquilano e Rimondi per i 20 anni di Piazza Sempione hanno creato una capsule collection reinterpretando i capi  “icona” della maison. E per la loro prima collezione per Fay hanno attualizzato i capi “icona” del marchio.
Tutto è icona, ognuno può costruirsi, fai da te, la sua. Il significato primo della parola si è perso. Forse se ci fosse ancora l’URSS e nei lugubri corridoi dell’hotel Russìa, ora raso al suolo, qualcuno ci proponesse icone per pochi dollari, penseremmo a un giubbotto di pelle o a un CD autografato di Lady Gaga.

POPOLO & SPOCK GEMELLI DIVERSI


Non è politically correct affermarlo, ma Spock è figlio di p. di nome e di fatto. Che la mamma e le sue ave amassero intrattenere rapporti liberi con cani di non importa che razza purché dell’altro sesso, ne porta le tracce. Orecchie da pastore tedesco,  su gambe da bassotto e un  mantello bianco e nero da border collie. Il muso  con quel forte prognatismo non è certo meglio, ma lo sa muovere  e questo riguarda l’essere figlio di p. di nome. Salvato dal canile da una padrona che l’ha scelto in quanto brutto, è molto petulante con i cani, specie quando si sente spalleggiato da Popolo, un pastore tedesco con cui convive. Con gli umani preferisce puntare “sull’infanzia infelice”, arma che ha scoperto infallibile. Oltre ad assumere in pochi istanti l’aria da  testimonial della campagna contro l’abbandono, per avere su di sé l’attenzione,  è capace di mettersi in situazioni di cuccia o di giochi che ricreino il passato da trovatello, generando sicuri sensi di colpa anche nei più smaliziati.

C’è chi dice che è un po’ tonto, ma Popolo, stupendo pastore tedesco, in realtà ha una personalità complessa, basata su una disistima profonda di sé. Molto sveglio nel capire il funzionamento di tante cose, non se ne vanta mai. Convinto di essere brutto, troppo grosso e goffo pensa che il nano Spock sia il modello ufficiale di bellezza. Per questo per anni si è comportato da anoressico, mangiando solo quel minimo per non rendere infelice la padrona, per la quale nutre una considerazione  smodata. Pur passando  tutto il giorno con lei  è sempre preoccupato che se ne vada. Se si alza dal tavolo dove lavora, la segue, ma per non essere incombente si mette in posizione da dove osservare i suoi movimenti senza  essere visto. E se la padrona esce, lasciandolo, la guarda disperato, ma rassegnato.  Si intuisce che pensa:”Certo mi lascia e fa bene, perché io non valgo niente, sono brutto, troppo grosso e goffo”.