lunedì 18 marzo 2024

COSA C'E' IN UNA ROSA?

Molti, milanesi soprattutto, ne conoscono il nome, ma sono pochi a sapere che Rosa Genoni, oltre a essere la prima vera stilista/couturière italiana, è stata una protofemminista convinta, attiva anche in Francia e in Inghilterra e una sostenitrice del Made in Italy. Quel Made in Italy che sembra una scoperta degli ultimi anni. Nel centenario della morte, avvenuto nell’agosto del 1954 a Varese, la giornalista Elisabetta Invernici, sempre interessata alla storia della moda legata a Milano, ha creato il Palinsesto Rosa Genoni. Per raccontare non solo la stilista, che allora veniva chiamata sarta, ma anche la donna impegnata.  Molto interessante la struttura del progetto che può essere una guida di Milano, non solo per chi non conosce la città, ma soprattutto per chi della città vuole scoprire particolarità non note ai più. Un altro filo conduttore del Palinsesto Rosa Genoni è l’accento sul femminismo.



Il primo incontro, non a caso, è stato il 14 marzo alla Fabbrica del Vapore, dove si è appena conclusa la mostra Straordinarie.  Aperta il 17 febbraio e curata da Renata Ferri, raccoglie i ritratti fotografici realizzati da Ilaria Magliocchetti Lombi, di 110 donne italiane contemporanee e viventi (con l’unica eccezione di Michela Murgia) che si sono distinte in svariati settori, considerate testimonial dell’empowerment femminile. Qui Invernici ha raccontato della vita avventurosa di Genoni, nata in una famiglia modesta della Valtellina prima di diciotto fratelli, di cui dodici sopravvissuti. A dieci anni, con la terza elementare come titolo di studio, viene mandata ad aiutare a Milano la zia sarta. Da qui inizia il suo lavoro di stilista, che porta avanti insieme alla passione politica e sociale. Invernici ha quindi spiegato che le varie tappe o incontri del percorso si tengono in luoghi con precisi riferimenti a Rosa Genoni. Così il primo, il 16 marzo, un matinée nella sede degli Amici del Loggione del Teatro della Scala, uno dei primi luoghi visti da Rosa, e con il quale lei manterrà contatti, vestendo per le prime della Scala le più titolate signore milanesi. Qui Cristiana Pegoraro pianista, compositrice, poetessa, ha eseguito al piano i pezzi più noti di Mozart, Beethoven, Chopin, Schumann, Brahms, inframezzandoli con piccoli, ben studiati ritratti di ognuno di loro e terminando con la lettura di sue poesie e l’esecuzione al pianoforte di pezzi da lei composti (foto in basso). Come si è detto, seguiranno incontri nei luoghi di lavoro di Rosa, come la Società Umanitaria dove è stata docente alla scuola professionale femminile fino al 1931,  quando si dimise per non giurare fedeltà al fascismo. Ma anche i luoghi che l’hanno ispirata, dall’Accademia di Brera dove dagli abiti dei dipinti riusciva a cogliere dettagli da inserire, rinnovandoli e interpretandoli, nelle sue toilette, al Palazzo del Senato, alla Galleria Vittorio Emanuele, al Teatro Gerolamo, fino al carcere di San Vittore dove aprì una sartoria per le detenute, oltre che un asilo nido e un ambulatorio ginecologico.

domenica 17 marzo 2024

UN' ALTRA MARILYN

Su Marilyn Monroe si è detto e scritto di tutto. E’ stata sicuramente il personaggio del cinema più chiacchierato e non solo per la liaison con presidente e fratello e per un suicidio su cui circolano ancora sospetti e illazioni. Prevale un’immagine di donna superficiale e di certo da giudicare. Marilyn in prima assoluta ieri al Teatro Gerolamo di Milano rivolta tutti i possibili giudizi. E riesce comunque a costruire un profilo dell’attrice ben definito, a cui non fa fatica attenersi. A portare sul palcoscenico lo spettacolo Cinzia Spanò, attrice e autrice del testo. A intervallare le sue letture Roberta Di Mario che al pianoforte esegue brani da lei composti (foto in basso).  



Quello che legge Spanò sono pagine di un ipotetico diario datate del 1962, che si concludono con l’ultima in agosto, mese della morte di Marilyn . Subito è evidenziata la figura di una povera ragazza, Norma Jean, che sogna di diventare attrice, forse per essere finalmente amata. Ma non ha nessun appoggio, non trova sicurezza neanche nella bellezza del suo fisico. Non ha mai conosciuto il padre, un norvegese, ha trascorso l’infanzia fra orfanatrofi e famiglie adottive. E quando la madre la riprende con sé, è una donna malata che finirà la sua vita in ospedale psichiatrico. La paura, il sentirsi inferiore ed esclusa sono le sue sensazioni più ricorrenti. Anche quando incomincia a essere una diva. “Hollywood è un posto dove ti pagano mille dollari per un bacio e cinquanta centesimi per la tua anima” è la frase attribuita a Marilyn, che Spanò riporta. Quello della vita della Monroe è il riassunto  di una vita insulsa, in cui lei non è la protagonista ma un’estranea che la guarda.  Anche l’amore per lei non è mai esistito. Joe DiMaggio, il secondo marito (il primo l’aveva sposato a 16 anni sperando di poter trovare così una famiglia) è geloso, la critica, e a lei preferisce le partite in televisione. Anche la storia con Arthur Miller è un fallimento. Lui non la stima e glielo fa capire, anzi si fa bello sulle loro differenze culturali e mentali.  C’è un accenno ai due fratelli Kennedy, non si capisce se positivo o no. Insomma una lettura drammatica da cui emerge una figura di donna che si avrebbe voglia di stringere fra le braccia e consolare. Vergognandosi di averla non solo criticata, ma anche giudicata. E tutto questo non togliendo niente all’immagine di mito del cinema, come è sempre apparsa. 


 

venerdì 15 marzo 2024

CRONACA DI UNA SEPARAZIONE

Ci vuole audacia per mettere insieme due testi teatrali di autori diversissimi in un unico spettacolo. Anche se la locandina annuncia “liberamente tratto”. Ancora più se si stratta di testi di grandi autori quali Ibsen e Garcìa Marquez, quasi in antitesi tra loro. Soprattutto su una tematica di quel tipo. Se poi si aggiunge che si parla di un monologo di un’ora, lo spettacolo ha davvero il sapore di una sfida. Cronaca di una separazione la sfida la vince in pieno.  



Proprio sulle differenze ha giocato abilmente Roberto Cajafa, regista oltre che autore del testo. Ne viene fuori una particolare ambiguità, che la bravissima Cinzia Damassa riesce a cogliere e comunicare, rendendo lo spettacolo più che mai intrigante. Un susseguirsi di piccole sorprese che creano una suspense. La storia è quella di una donna al 25esimo anno di matrimonio, che lascia casa, marito e figli, proprio quando sono già in corso i preparativi di una grande festa per celebrare l’anniversario. “Per doveri verso me stessa” spiega così l’abbandono la donna. E li racconta, via via parlando del suo rapporto con il marito, di una storia d’amore che, iniziata con tutti i giusti presupposti, è sfumata via, con tradimenti, routine, sbagliati coinvolgimenti. Ogni tanto una voce fuori campo interloquisce, è quella del marito (Roberto Cajafa). Con frasi banali, dettate dalla volontà di trattenerla, ma fredde e poco convinte. Quel marito è anche l’inesistente figura seduta sua una poltrona a cui la moglie si rivolge ogni tanto per le accuse più forti, per rinfacciargli pezzi di vita inutile. Anche la gestualità di Damassa è studiata e convincente, tanto da riempire la scena. Mentre parla si cambia d’abito, rimane in vestaglia e sottoveste, prepara una grande, simbolica, valigia di legno, raccoglie i gioielli per buttarli via. Passa da momenti di lucida determinazione a piccoli istanti di commozione, quasi di rimpianto. La sfiora la rabbia, ma mai esaltata. Non c’è rassegnazione, ma s’intuisce, grazie alla sapiente recitazione,  che c’è stata.  Andato in scena al Teatro Laboratorio di Milano nei primi giorni di marzo, ci si augura che ritorni in altre date.  


giovedì 14 marzo 2024

FASHION VICTIMS, CHI?

Non è semplice parlare di tematiche sociali con uno spirito leggero,  senza cadere nel qualunquismo o nella polemica sterile. Per questo Fashion Victims. L’insostenibile realtà del fashion  prodotto dal Teatro del Buratto, è uno spettacolo assolutamente da vedere. Già il titolo è invitante e incuriosente con quel giocare su frasi fatte ma senza sfiorare il grottesco risaputo. In scena i bravissimi Marta Mungo e Davide del Grosso, autore del testo che ha curato anche i video e la regia (nella foto). 


Coetanei, apparentemente simili, rappresentano le due facce opposte del Fashion. Da una parte il ragazzo in corsa sfrenata all’acquisto bulimico di capi che ritiene fondamentali nella sua vita 
e determinanti per il primo appuntamento con la ragazza da conquistare. Dall’altra la coetanea dell’emisfero opposto che di fashion vive, anzi sopravvive, orribilmente sfruttata, senza diritti e riconoscimenti, fin dalla più tenera età.  All’inizio ognuno dei due ricompone un manichino, che in diversa maniera rappresenta per entrambi il punto centrale della loro vita. Seguono una serie di video proiettati su dei parallelepipedi di tessuto che diventano, di volta in volta, schermi, letti, punti di appoggio. Raccontano con frasi lapidarie la vita, ma anche, con i numeri, i disastri provocati dall’industria della moda.  Qualcosa di cui si sa, ma che con i numeri diventa più reale. Dal fatto che l’industria tessile produca più anidride carbonica del trasporto ferroviario, marittimo e aereo messi insieme, al fatto che la produzione di capi dal 2000 sia più che raddoppiata, ma i capi vengano indossati meno della metà del tempo rispetto al passato. Tutto questo comporta uno sfruttamento insano del pianeta: dai pesticidi, i diserbanti, i coloranti, che danneggiano la natura e gli animali che ci vivono, allo spreco dell’acqua, fino al lavoro nero che coinvolge le popolazioni più povere, bambini compresi. I due attori commentano, cantano, ballano, mimano fino ad arrivare alla fine dello spettacolo a coinvolgere il pubblico, in un dialogo "suggerito" fra uno spettatore e una spettatrice. Lo spettacolo è in scena dal 12 al 16 marzo al Teatro Verdi di Milano. 


 

martedì 12 marzo 2024

UNA PARENTESI CHE CONTA

Quel "Tra parentesi", realmente tra parentesi, del titolo che precede La vera storia di un’impensabile liberazione,  anticipa in modo chiaro e appropriato lo spettacolo al Teatro della Cooperativa di Milano. Che, dopo la prima edizione del 2018, per il quarantennale della Legge Basaglia, riprende ora per i cent’anni dalla nascita del rivoluzionario della psichiatria.  Racconta, appunto, gli anni in cui la malattia mentale fu messa tra parentesi. Quando si incominciò a pensare di chiudere i manicomi e far tornare i cosiddetti matti, internati senza un nome e una dignità, persone e cittadini liberi, da curare. 


A parlarne sul palcoscenico, seduti su una panchina come nella precedente edizione, non due attori ma Massimo Cirri e Peppe Dell’Acqua. Il primo drammaturgo, conduttore radiofonico, nonché psicologo nei servizi pubblici di salute mentale da 25 anni (a destra nella foto).  Il secondo psichiatra e docente di psichiatria a Trieste. Ma soprattutto tra coloro che hanno lavorato a fianco di Franco Basaglia, contribuendo alla nascita dei primi dipartimenti di salute mentale.  Non è ancora laureato, racconta Dell'Acqua, quando entra nel 1971 nel manicomio di Trieste di cui è diventato direttore Basaglia. Che dal 1961 come direttore dell’ospedale psichiatrico di Gorizia "sta scommettendo il suo potere per cambiare ogni cosa” nel trattamento dei malati mentali. Dell’Acqua procede nei ricordi, interrotto dalle domande centrate di Cirri, talvolta anche sul filo di un’amabile ironia, ma sempre ben recepite. In certi momenti la narrazione sfiora il surreale. Quando si parla, per esempio, di quel cavallo, Marco Cavallo, costruito da due artisti nel manicomio di Trieste, che viene  portato in corteo per le vie della città, come simbolo della  liberazione. S’intrecciano aneddoti sui ricoverati. Tutto inframezzato da collegamenti con la situazione italiana. Fino al maggio del 1978, subito dopo il delitto Moro, quando il Parlamento approva la legge 180 che “ridisegna lo statuto giuridico dei malati di mente e stabilisce la chiusura degli ospedali psichiatrici”.  Quello che emerge dalla narrazione  è la volontà di Franco Basaglia, che continua a essere supportata, di creare una società che contenga sia la normalità che la follia, con la possibilità di dialoghi, scambi, incontri con"l’altro". 
Lo spettacolo, al Teatro della Cooperativa fino al 13 marzo, prosegue in tournée per l’Italia.   


 

venerdì 8 marzo 2024

SHAKESPEARE IN VIOLENCE

S’intitola solo Lucrezia preceduto da Shakespeare 2.0 lo spettacolo, in scena soltanto ieri, al Teatro Menotti Filippo Perego di Milano.  S’ispira al poema Lo stupro di Lucrezia, scritto dal grande drammaturgo nel 1594 per il duca di Southampton e ispirato a sua volta alla figura di Lucrezia, vissuta alla fine del VI secolo AC e moglie di Collatino, parente dell’ultimo Re di Roma. Nessuna scenografia e nessuna azione. Sul palcoscenico due attori con i loro leggii da voci recitanti. Sono i bravissimi Claudio Santamaria e Francesca Barra (nella foto) che si alternano nella lettura, con intervalli di musiche da Bach a Paganini, a Piazzolla dello straordinario violino di Davide Alogna.


Santamaria espone i fatti e cioè l’atroce stupro della nobile Lucrezia, moglie virtuosa, perpetrato con subdoli raggiri da Sesto Tarquinio, figlio di quel Tarquinio il Superbo, ultimo re di Roma. Una violenza che porterà la donna al suicidio. In risalto il machismo più bieco, la voglia di provare il proprio potere di maschio, ancora più di soddisfazione perché su una donna bella e fedele al marito. Barra interviene con considerazioni, osservazioni e commenti che riportano sempre di più all’attualità e al quotidiano. Fino ad arrivare a ricordare episodi di femminicidio e di violenza nei confronti delle donne, apparsi sulle cronache. Nell’insieme un racconto senza retorica, equilibrato, alle volte perfino freddo e proprio per questo capace di colpire maggiormente al cuore. E a far riflettere e pensare all’ orribile fenomeno della sopraffazione sulle donne, che nei secoli continua a esistere. 

giovedì 7 marzo 2024

I CORPI PARLANO

A vederli così al primo impatto e con uno sguardo superficiale sembrano dei paesaggi, in qualche modo sublimati. La riva di un fiume con i sassi, un campo di fiori visto dall’alto, una spiaggia sul mare, il greto di un fiume con poca acqua.  In realtà i dipinti di Aldo Salucci, in mostra all’A.MORE Gallery di Milano, raccontano qualcosa di diverso.  Dietro, oltre a un attento studio, c’è un invito a guardare il mondo e soprattutto la vita umana e il dolore con un altro occhio. 




Come anticipa il titolo della personale Corpi in attesa, il punto di partenza delle opere è la biologia e l’anatomia umana. L’artista  parte da immagini di cellule malate viste al microscopio, ingrandite e fotografate. Su queste ha applicato colori accesi, materiali e reagenti chimici. Oltre che una polvere d’oro, ispirandosi alla tecnica giapponese del riparare con l’oro, usata dai ceramisti per riparare, appunto, le tazze della cerimonia del tè.  Gli interventi con la polvere rappresentano il modo per ricucire le ferite e le lacerazioni di questi corpi. A significare che “dall’imperfezione e dalle ferite può nascere una forma maggiore di perfezione estetica e interiore”. Come scrive Domenico De Chirico, curatore della mostra, “In questo modo Salucci ci suggerisce di penetrare nel dolore e di leggerlo in tutta la sua disumanizzante autorità”. Al di là del messaggio positivo che invita a guardare con speranza al futuro e a “stigmatizzare il dolore” le sue opere attraggono, invitano alla contemplazione. Si ha voglia di guardarne i particolari come gli spazi bui, non coperti da pittura.  E anche immaginare, se si vuole, possibili paesaggi. La mostra aperta oggi all’A.MORE Gallery, in Via Massena a Milano, chiude il 31 maggio.