E’ un peccato che la scultura di Maria Cristina Carlini sia
a Rho Fiera Milano, dove quando ci si va si è
sempre troppo di fretta per apprezzarla come dovuto. In acciaio corten e legno
di recupero, alta dieci metri, è installata su un laghetto davanti
al Centro
Congressi. Come tutte le opere della scultrice ha un titolo “La nuova città che
sale”. E’ una scala che non finisce con un gradino o un piano, ma con una punta.
Non è tortuosa, ma ha l’aria di essere accessibile. Come osserva Camillo Fornasier, consigliere delegato arte e cultura
Fondazione Stelline, pone una domanda, ma di positività. “Finisce nel cielo o
si contrappone al cielo”. Si chiama in modo simile a
un dipinto di Boccioni di un centinaio d’anni prima “La città che sale”.
Secondo il presidente della Fondazione Mudima Gino Di Maggio pochi artisti
avrebbero osato. Eppure la scelta del nome per Carlini non è dettata
d’arroganza, ma esprime una considerazione sull’opera. Entrambe, infatti, pur
diverse tra loro, raccontano gli inizi di un secolo pieno di innovazioni. A
fare da cornice sono il palazzo Vela di
Fuksas e i due edifici scuri di Dominique Perrault, con i quali dialoga in
sintonia. Secondo Philippe Daverio, Maria Cristina Carlini, come Pino Spagnulo
e Giovanni Kounellis, sono artisti capaci di stabilire un linguaggio
comune, che li identifica “nella tribù”. Le loro opere di quel
colore ruggine, sono in armonia con l’architettura contemporanea, parlano lo
stesso linguaggio. “Perché senza linguaggio non esiste l’arte”. E la ricerca dei
materiali e l’uso di alcuni insoliti, sempre in
armonia con lo spazio intorno, sono la caratteristica forse principale
dei lavori di Carlini(dai campus universitari di Denver alla Città Proibita di Pechino, al Lungomare
di Reggio Calabria, ecc.). “Mi piacerebbe fare delle sculture e sapere dove
vanno” dice l’artista, in genere restia
a parlare delle sue creazioni e delle sue fonti d’ispirazione: “Vorrei che
ognuno ci potesse vedere quello che vuole”.
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