Un grande cubo con solo tre pareti,
all’interno una camera, un’altra che si
intravvede appena con una finestra, un corridoio. Il tutto filtrato da qualcosa che stempera i contorni.
Pochi mobili, quasi dei simboli. Un
letto con la testiera metallica, una sedia, un tavolo, la carrozzina di un
neonato. Una lampada pende dal soffitto,
ma non è abbastanza per illuminare. Un
faretto ossessivo, abbagliante sembra voler costringere nel cuore della scena. E poi luci dall’esterno
che formano riflessi, ingrandiscono le
figure umane, creano giochi da ombre
cinesi. E’ la scena che appare sul palcoscenico del Teatro dell’Arte di Milano per “L’insonne”
di Lab 121 (fino al 23 febbraio).In questa occasione più che mai la linea di
confine fra teatro e installazione artistica
è sottile, infinitesimale, inesistente. Lo spettacolo si percepisce
nell’insieme, appaga vista e udito. I due attori Alice Conti e Francesco
Villano, peraltro bravissimi, non sono che un dettaglio, fondamentale certo, ma
parte del tutto. La regia di Claudio Autelli, che ne ha curato anche la
drammaturgia con Raffaele Rezzonico, è inappuntabile, ma dipendente
dalla scelta delle luci, dei suoni, delle musiche particolari. Come quel “Tous les garçons et les filles de mon âge” a sorpresa, che aiuta a datare e introduce in un piano di
realtà più comune. E poi l’espediente della voce registrata femminile, che però è un uomo che parla in prima persona
, forse Sandor, il protagonista, con i suoi ricordi confusi, i suoi sogni, le
sue manie. La pièce è un libero adattamento
dal romanzo “Ieri” di Agota Kristof, scrittrice ungherese costretta a fuggire dall’ Ungheria
nel 1956. Nei suoi scritti è sempre
presente quella situazione di sradicamento, quello strappo violento subito, quella
ferita di cui non è mai riuscita a guarire. E’ un testo che può far riflettere
certo, ma è un po’ debole, a un passo dalla retorica, non avrebbe la forza di
trascinare. L’insonne, invece, affascina, provoca emozioni, inchioda alla
poltrona, prende i pensieri e soprattutto cattura lo sguardo.
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