giovedì 31 gennaio 2019

IL MONOLOGO DI MONI



Moni Ovadia sul palco con un microfono in mano per un’ora, con solo un piccolo intervallo musicale. Nessuna pausa, nessun momento di stanchezza, nessuna ripetizione o frase sopra le righe. Una platea attentissima, che non si è distratta nemmeno per un attimo. Questa la sintesi della serata organizzata allo Spazio Oberdan (nella foto), a Milano, dalla Fondazione Verga, che da quarant’anni si adopera per l’integrazione sociale di migranti e rifugiati. Il migrante che è in noi, stranieri con noi stessi il titolo. Importante certo, anche enfatico, ma perfetto per il contenuto, che sviluppava in pieno. Il tono sempre un po’ sostenuto, com’è nelle corde di Ovadia, ma lontano da qualsiasi vena retorica, facile in quest’argomento e soprattutto utile per coinvolgere la platea. Niente false modestie, ma un Io sempre in prima fila, funzionale per rendere più vera, più sentita, meno  artefatta l’esposizione. Perfettamente calibrato l’intervento dell’ottimo fisarmonicista Albert Florian Mihai, all’inizio, alla fine e a metà del discorso. Non solo bravo, ma in linea con la serata perché rom e romeno, proprio come Ovadia è ebreo e bulgaro. Considerazioni sul mondo, sulla sua evoluzione, sulla storia dei Paesi e su come la loro forza stia proprio nel crogiuolo di provenienze, di lingue, di esperienze e testimonianze diverse. E gli Stati Uniti, che ora si vogliono trincerare dietro ai muri, sono proprio un esempio di come, grazie alle immigrazioni, sono diventati la potenza più grande nel mondo. Una serie di considerazioni raccontate con semplicità e documentate dalla conoscenza della storia, di fronte alle  quali Aiutiamoli a casa loro o Prima gli italiani diventano delle battute, non tanto agghiaccianti perché totalmente prive di umanità, quanto espressione di una completa mancanza del senso del ridicolo. L’humour del relatore, sempre costruttivo e accompagnato  da una forte autoironia, non ha risparmiato nessuno.  A questo proposito è stato difficile per il pubblico trattenere gli applausi, ma è stato impossibile contenerli per due frasi.  La  prima  in cui Ovadia ribadiva, con veemenza e orgoglio,  il fatto di essere ebreo, ma non israeliano. E la seconda quando smontava la comune convinzione della supremazia intellettuale degli ebrei, facendo riferimento a Netanyau.  

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