venerdì 17 dicembre 2021

UNA LINGUA DI SUCCESSO

Lips and tongue è uno dei loghi più famosi e sfruttati degli ultimi 60 anni. Non solo nel mondo del rock e degli appassionati di musica.  Creato nel 1971 da John Pasche, studente del Royal College of Art di Londra, per l’interno copertina dell’album Sticky Fingers dei Rolling Stones, si ispira alla dea hindu Kali, su suggerimento di Mick Jagger. Non alla sua bocca come molti pensano. Il disegno venne pagato solo 50 sterline, a cui se ne sono aggiunte 26mila nel 1984, per i diritti. Nel 2008 il bozzetto originale è stato venduto al Victoria and Albert Museum di Londra per 92.500 dollari. Quelle grandi labbra rosse da cui fuoriesce una lingua altrettanto rossa, nel giro di poco tempo hanno superato copertine di vinili e cd, per diventare un simbolo di anti-autoritarismo e ribellione e apparire un po’ dappertutto dall’abbigliamento alle automobili. 


Alanui con Bravado, società di merchandise e brand management di Universal Music Group, per celebrare i 60 anni dei Rolling Stones, ne ha fatto il protagonista e filo conduttore di una capsule collection. Brand fondato nel 2016 dai fratelli Carlotta e Nicolò Oddi, Alanui si è subito distinto per il tipo di maglieria, con lavorazioni jacquard e filati preziosi, ispirati all’iconografia americana e al viaggio in generale. Non  a caso il nome Alanui significa grande percorso in hawaiano. Ed ecco in collezione, con i nomi dei successi della band, per uomo, donna e bambino, It’s only Rock and Roll, in lana vergine con il motivo bandana rosso e nero. Start me up è un classico cardigan nero con le parole della canzone sul fronte. Psychedelic, realizzato con filati rigenerati di cashmere e lana, ha un sapore vintage. “Sono una grandissima fan dei Rolling Stones fin da bambina e la band è sempre stata fonte di ispirazione” commenta Carlotta Oddi, direttrice creativa. La capsule è in vendita dal 10 dicembre sul nuovo e-commerce alanui.it.

mercoledì 15 dicembre 2021

RITORNO AL FUTURO

Bisogna proprio vederlo scritto che lo spettacolo Far Finta di essere sani, al Menotti Teatro Filippo Perego da ieri fino al 31 dicembre, sia stato concepito da Giorgio Gaber e Sandro Luporini e rappresentato nel 1973, quasi cinquant’anni fa. Certo c’è l'adattamento e la regia di Emilio Russo e ci sono effetti di luce, migliori di qualsiasi scenografia, impensabili per allora. Però i contenuti e cioè le parole delle canzoni, come i dialoghi e i monologhi sono quanto mai attuali, tanto da domandarsi se Gaber non guardasse già molto avanti o se invece si adattano a questi tempi perché segnati dal Covid. 



Sul palcoscenico, tutti vestiti uguali in pantaloni con bretelle e camicia bianca, l’eclettica e bravissima Andrea Mirò, attrice, autrice, cantante, violinista, direttore d’orchestra, il brillante Enrico Ballardini autore, musicista e cantautore e gli strepitosi quattro della band toscana Musica da Ripostiglio, che hanno curato l’arrangiamento delle musiche. Tutti perfettamente in accordo e ugualmente responsabili di uno spettacolo davvero coinvolgente. Dove si ride, certo, si partecipa battendo le mani o addirittura cantando, com’è successo sulle note di Libertà. Ma si riflette anche e si ha modo di pensare agli atteggiamenti schizofrenici dell’uomo contemporaneo, alle sue paure, alla sua finta aggressività, alle sue false sicurezze, in gran parte dettate da un contesto che gli è sempre meno congeniale.  Far finta di essere sani, prodotto da Tieffe Teatro in collaborazione con la Fondazione Giorgio Gaber, rimasto in stand by per due anni a causa della pandemia, è perfetto per chiudere l’anno in bellezza e con l’augurio di un anno migliore. Il 31 dicembre è prevista una doppia replica alle 19 e alle 22,30 con brindisi. 

martedì 14 dicembre 2021

ANNUNCIAZIONE IN SALSA POP

Delle Annunciazioni molto particolari quelle da vedere al Palazzo del Pretorio di Prato. Già il titolo della mostra Hi Woman! lascia immaginare che non si tratti di opere ispirate alle Annunciazioni  presenti nel museo. Da quelle dei tardo gotici Lorenzo Monaco, Andrea di Giusto e Mariotto di Nardo alla rinascimentale di Filippo Lippi, dalle seicentesche di Giovanni Billivert e Giovan Domenico Ferretti all’ottocentesca di Alessandro Franchi. Hi woman! è la versione pop e “aggressiva” del saluto che l’angelo Gabriele rivolge alla Madonna. Ma a coglierlo in questo caso sono più donne, ventidue artiste che danno una loro interpretazione del futuro : La notizia del futuro come dice il sottotitolo della mostra. Le opere, video, pitture,




sculture, installazioni, dialogano con le Annunciazioni storiche, in una sorta di confronto fra passato e presente. Anche i ruoli di queste Annunciazioni  sono stravolti. L’artista è allo stesso tempo l’angelo che annuncia e la Madonna a cui si annuncia, ma l’opera è anche l’angelo e la Madonna è lo spettatore. Come scrive Francesco Bonami, curatore della mostra, l’Annunciazione è “un’immagine cardine dell’iconografia di una buona parte del genere umano…  La Madonna diventa depositaria del futuro del mondo…senza condividere il piacere di questa responsabilità”. Una mancanza di scelta che è comune  alle donne di molti Paesi. Le artiste, invece, sono donne che hanno scelto di essere artiste in una condizione quindi opposta a quella della Madonna. E di questo tema trattano le loro opere, in una formula spesso difficile da decifrare che coinvolge sentimenti, ideologie, scelte di vita e individuale concetto di arte. La mostra, inaugurata l’11 dicembre, chiude il 27 febbraio.  Nelle foto, dall'alto,  Isabelle and Marie di Roni Horn, Have you seen me before? di Paola Pivi, Burned Bridge di Marianne Vitale.

venerdì 10 dicembre 2021

IL CORAGGIO DELLA DISOBBEDIENZA

Per quanto l’efficacia del teatro data la presenza fisica sia indiscutibile, il provare brividi o l’essere totalmente presi in una vicenda drammatica, come guardando un film al cinema, di rado si verifica. Per Aquile Randagie, in prima nazionale al Teatro della Cooperativa di Milano, succede. Scritto e interpretato da Alex Cendron (trevisano, classe 1977) racconta una vicenda della storia italiana sconosciuta ai più. Come anticipano le tre parole che seguono al titolo Credere, disobbedire, resistere, tratta  della clandestinità e del grande contributo alla Resistenza degli scout nell’Italia fascista durante l’ultima guerra. Lo scoutismo, infatti, era stato soppresso nel 1928 con un decreto di Mussolini. In sostanza gli scout, anche se organizzazione cattolica, non potevano più esistere, l’unica forma di aggregazione consentita per i giovani era l’Opera Nazionale Balilla. Però quella decisione ridicola e insensata non si è limitata a far ridere, come tante altre del Duce, ma ha avuto tragiche conseguenze. Gli scout non si sono adeguati all’imposizione, ma hanno deciso di continuare con le loro riunioni e le loro missioni.



Proprio di una di queste, svoltasi in una notte, parla lo spettacolo. Cendron, sul palcoscenico con un grande schermo dove ogni tanto sono proiettate vecchie foto d’epoca, di volta in volta interpreta personaggi differenti. Sempre in divisa da scout. Dal padre ariano che deve portare fuori dall’Italia il figlio, la moglie e un’amica, entrambe ebree, al prete combattivo e risoluto. Dall’albergatore, apparentemente amicone e cordiale, in realtà orribile delatore, al militare che non sa cosa fare, a qualcuno degli scout che per salvare la famiglia s’inventano di tutto. Portano a termine la missione, ma  sacrificano le loro vite. I personaggi interpretati sono quanto mai realistici, ognuno con una parlata che li caratterizza, ma senza mai diventare macchiette. Gia dalle prime battute la tensione è forte e aumenta in modo esponenziale. Si è ansiosi di sapere cosa sta succedendo, si spera, si partecipa, insomma, in modo totale. Coinvolgente la regia di Massimiliano Cividati, ben supportata dalle musiche di Paolo Coletta. Aquile Randagie, da ieri al Teatro della  Cooperativa, prosegue fino al 19 dicembre. Ci si augura che lo spettacolo, dato l’altissimo livello e l’importante contenuto, possa essere replicato in tutta Italia e mostrato soprattutto ai giovani.


martedì 7 dicembre 2021

MISTERI A BORGO

I motivi che invogliano e quindi consigliano la lettura di L’Album di famiglia di Valentina Olivastri sono svariati. Tanto da poter essere inquadrato in diverse tipologie di romanzo. Ci sono le descrizioni dei luoghi, dove emergono il poetico e una scrittura classica inappuntabile. C’è il giallo sfiorato che cattura l’attenzione. Ci sono i personaggi di un’apparente normalità, ma tratteggiati in sfumature a sorpresa e resi freschi e contemporanei dai dialoghi, ben conditi da espressioni tipiche fra la parlata umbra e quella toscana.  


Tutto si svolge, infatti, nell’inesistente paese di Borgo,“un microcosmo per un microtempo”, ha spiegato l’autrice, alla presentazione del libro, collegata in streaming da Oxford, dove vive ed è Principal Library Assistant della biblioteca dell’Università. Dato che Borgo ha vari punti in comune con Cortona, suo paese natale, e considerando che il racconto è in prima persona, vien facile pensare a un romanzo autobiografico. Che invece non è. Da Cortona, certo, Borgo ha preso molto, ma il nome è un omaggio a Piazza d’Italia di Antonio Tabucchi e la splendida vista da una finestra è “presa in prestito” dal paese di Radicondoli, nel senese. “La scrittura è ricordare” sostiene Olivastri. E i cenni e i ricordi sono molti. A cominciare dai numerosi accenni al cibo come un piacere.  Non ci sono ricette ma s’individua il gusto per la cucina tradizionale  tanto da farla diventare “un collante fra amici nuovi e vecchi”. Ed è in questa atmosfera, fra un invito a cena e due chiacchiere al bar, che dalla banale scoperta di un vecchio album, emerge una storia che rivolta completamente le supposizioni, le concezioni, i pareri che da anni erano uno dei soggetti preferiti di conversazione.  Con uno straordinario colpo di scena. 

venerdì 3 dicembre 2021

FERRE': IL RIGORE DELLA CREATIVITA'

"Non è stato solo un atto notarile" ha commentato il Rettore del Politecnico di Milano Ferruccio Resta a proposito della donazione al Politecnico dell’archivio del patrimonio artistico di Gianfranco Ferré e della sede della Fondazione, in Via Tortona a Milano, in cui è raccolto dal 2008.  Sarà, infatti, la base di un Centro di Ricerca che avrà il nome dello stilista, laureatosi in Architettura nel 1969, proprio al Politecnico di Milano. Il Centro avrà quindi una dimensione dinamica, non sarà solo un archivio, ma un laboratorio per sperimentazioni che coinvolgeranno docenti e studenti di diverse discipline dell’Ateneo.




L’archivio comprende più di 150mila documenti e artefatti, che vanno da schizzi e disegni tecnici a foto, abiti, accessori, libri, riviste dal 1970 al 2007, filmati, rassegne stampa, scritti, lezioni, appunti dello stilista. E tutto quasi interamente catalogato in una banca digitale, che lo rende facilmente fruibile. Un patrimonio, come hanno spiegato Luisa Collina e Alessandro Deserti del Politecnico, rispettivamente Preside della Scuola di Design e Direttore del Dipartimento di Design, che è un ideale punto di partenza su cui studiare e da fare evolvere con le nuove tecnologie. Questo è possibile grazie al rigore delle opere di Ferré, come ha ribadito il Rettore, dovuto a una progettualità insita nella sua  formazione di architetto. Paola Bertola, docente di Design al Politecnico, ha ricordato come lo stilista nella sua ultima lezione al Politecnico, il 14 giugno del 2007, l’abbia stupita per quella capacità di incanalare la sua poetica in un rigore scientifico. Partiva cioè da categorie, da principi quasi fisici e matematici, piuttosto inconsueto nel mondo della moda, dove l’ispirazione sembra essere il solo elemento trainante. E tutto questo senza togliere nulla alla creatività perché, come ha detto Rita Airaghi Direttore generale della Fondazione e la persona che è stata più vicina allo stilista nella sua attività, Ferré sosteneva che non si deve mai dimenticare che la moda è anche un sogno.  


 

mercoledì 1 dicembre 2021

SCULTURE DA INDOSSARE

Che il gioiello sia una forma d’arte è risaputo e riconosciuto,  ma che possa avere un riferimento con un movimento artistico non è così scontato. Eppure succede. Ne sono un esempio i gioielli di Alberto Zorzi, maestro orafo classe 1958, nella mostra curata da Alessandra Quattordio alla Babs Art Gallery di Milano. Come dice il titolo Geometrie nello spazio "nell'approccio scultoreo" si nota uno studio, appunto, delle geometrie e una ricerca del movimento che in qualche modo rimandano al Futurismo. I gioielli esposti, tutti esemplari unici, si distinguono in pezzi definibili storici e in una ventina degli ultimi vent'anni. 




Tra i primi la spilla Opera Aperta dove un rubino sintetico esce come un fiore da una piccola coppa d'oro (in alto) o la spilla Structura con quarzi dal taglio a lastra (al centro). Sono opere più recenti il collier Metropolis con un pendente in cui elementi in oro e onice richiamano una città futuribile (in basso) o l’incredibile bracciale Scriptura in argento dalla forma perfettamente cubica. O ancora l'anello La fecondità con due sfere d’argento all’interno di una conchiglia d’oro semiaperta. In contemporanea nella galleria da vedere la mostra Vivide Cromie animali, a cura di Ermanno Tedeschi con le opere di Edgardo Maria Giorgi, giovane artista e graphic designer torinese. Sono dei pannelli con dipinti di nove animali in via d’estinzione nei quali l'artista incastona delle gemme colorate, illuminate da un punto luce “che esalta la diversità tra la componente opaca e quella trasparente”. Di Giorgi anche alcuni pezzi dell’Agiografia Illuminata, rappresentazione dei santi in chiave contemporanea, già  esposta in Vaticano. La duplice mostra, inaugurata il 25 novembre,  chiude il 31 gennaio 2022. La galleria, in Via Gonzaga 2, è aperta da lunedì a venerdì dalle 10 alle 18. Altri orari su appuntamento.