mercoledì 31 ottobre 2018

CENTODIECI DI QUESTI GIORNI


Un anniversario per i centodieci anni suona abbastanza strano. Ma dato che il festeggiato è un Hotel,lo Sheraton Diana Majestic di Milano, perfetta testimonianza della Belle Epoque, decenni di balli, cene e joie de vivre, era  giusto cogliere l’occasione. Tutto è avvenuto nel gazebo a vetrate nel mezzo del frondoso giardino, che fa da quinta a una delle sale più cool della città per gli aperitivi. Ad accogliere gli ospiti, personale con divise fin de siècle. Lunghe gonne nere e lunghi grembiuli bianchi per le cameriere, abiti neri con gilé per i camerieri. Apparecchiatura dei grandi tavoli tondi con posate in argento, bicchieri, vasellame del periodo, autentico o ottima copia. Candelabri di rigore e bouquet di fiori. In fondo alla sala un angolo in stile con quadro e poltrone per le foto di rito. Anche gli ospiti si sono divertiti a vestirsi secondo l’epoca, anzi l’époque. I signori hanno scelto la soluzione facile dello smoking o del completo scuro, mentre le signore si sono sbizzarrite attingendo, coraggiose, dal loro guardaroba i pezzi più riecheggianti il periodo. Gonne lunghe nere, anche a balze con camicie bianche, abiti damascati, piccoli spencer o bluse, in velluto o ricamate. E molti accessori, copricapi in primis: dalle toque ai cerchietti con piume o rose. Ma anche gardenie da occhiello, scialli, ventagli. Non tutti felicissimi gli insiemi, ma nessuno border line con la maschera, pericolo sempre in agguato. Per chi non aveva capi o accessori adatti, era stato organizzato un servizio di consulenza. Elisabetta Invernici, giornalista di moda e beauty editor, nonché Belle Epoque connoisseur, ha messo a disposizione parte del suo straordinario archivio, insieme a ottimi consigli. In stile, preceduta da un intrigante aperitivo con un cocktail rosa, la cena. A prepararla l’executive chef Luca Nania che ha rivisitato, con creatività, il menù proposto all’inaugurazione dell’Hotel, nell’ottobre del 1908. Brava la cantante, con un sostanzioso repertorio che si spingeva, forse un po’ audacemente, al post-Belle Epoque fino agli anni Quaranta.   

venerdì 26 ottobre 2018

UNA STORIA VERA


Non capita più in teatro di non sentire tra il pubblico il minimo rumore. Perfino in templi sacri come la Scala si avverte il fruscio di una gonna, il brusio della carta del programma toccata da una mano, un leggerissimo colpo di tosse. E' accaduto ieri sera al Teatro Verdi di Milano con moro: i 55 giorni che cambiarono l’Italia (la m di Moro è minuscola per sottolinearne lo stesso inizio del verbo morire). E non è stato per una forma di soggezione, ma perché l’attenzione era così forte da non lasciare spazio al più piccolo movimento. Come se questo potesse distrarre. In scena Ulderico Pesce che con il giudice Ferdinando Imposimato, titolare dei primi processi Moro, è autore dello spettacolo che da anni gira l’Italia. Contornato da vecchi televisori, un tavolo con fogli e una sedia, l’attore diventa Ciro, il fratello ai tempi quindicenne di Raffele Iozzino, l’unico uomo della scorta che  riuscì a sparare due colpi prima di essere ucciso. Attraverso le sue parole si rivedono gli antefatti. Si entra in casa Iozzino a Casola di Napoli. Si vede la mamma che dà a Raffaele una lettera per il presidente Andreotti, con la richiesta di blindare la 130 nera di Moro e l’Alfetta bianca della scorta, le uniche dei politici al governo a non esserlo. Insieme a un cesto con le prelibatezze della sua terra. Cesto che si ritroverà intonso con la lettera, sotto il letto di Raffaele. E farà piangere per la prima volta il maggiore dei cinque figli Iozzini.  Con Ciro si rivive il momento tragico quando dalla televisione scopre la morte del fratello. Da quel braccio con l’orologio regalato dal nonno per la cresima, che esce dal lenzuolo bianco. Non c’è retorica, né compiacimento per ruffianarsi la commozione. Anzi ci sono stacchi che fanno sorridere, come il dialogo fra Ciro e Adriana Zizzi, anche lei quindicenne, sorella del poliziotto Francesco, che quel giorno sostituiva un collega. Con la passione per Domenico Modugno e il sogno di diventare cantante. E i due immaginano che i fratelli negli ultimi istanti, prima di morire, abbiano cantato La Lontananza. Accanto al racconto del dolore delle famiglie e delle ansie per la vita di Aldo Moro, prende forma un altro racconto, forse più raccapricciante. S‘incominciano a intuire cose non dette, si spiegano strane coincidenze come la presenza di un  colonnello  dei servizi segreti nel luogo del rapimento, mezz’ora prima. Si capisce perché al giudice Imposimato vengono tolte le indagini, per darle, trasgredendo il Codice di procedura penale, alla Procura della Repubblica. E restituirgliele solo quando Moro è morto da nove giorni. Ed è impossibile non farsi trascinare dallo sgomento e dalla rabbia. Per cui quando, dopo gli applausi, Pesce ringrazia e chiede al pubblico di firmare una petizione per continuare a indagare sul caso, è difficile trattenersi da farlo subito. Lo spettacolo in collaborazione con il Teatro Menotti è a Milano ancora stasera, per poi proseguire la tournée.         

mercoledì 24 ottobre 2018

BALLANDO BALLANDO



Sulla scena ci sono ben sedici attori ma non è una commedia, tutti ballano ma non è un balletto, c’è musica ma non è un musical, anche perché nessuno canta dal vivo.  Non c’è una trama precisa, ma c’è una storia, anzi la storia. Le Bal, approdato ieri al Teatro Menotti nel mezzo di una lunga tournée, 
racconta, come dice il sottotitolo L’Italia balla dal 1940 al 2001, la storia dell’Italia dalla vigilia della seconda guerra mondiale fino al dramma delle torri gemelle. A evocare i vari decenni le canzoni più note, anche se non sempre legate fedelmente al periodo. A cominciare da E’ l’uomo per me  con la voce di Mina, che fa da colonna sonora alla scena iniziale  con le otte donne di varie età e corporatura, tutte  vestite anni ’40,  sedute nella balera,  e gli uomini che entrano. Anche loro sono diversi, dal timido occhialuto a quello di mezza età con pancetta, al principe azzurro in completo luccicante, al bellone narciso. Seguono, per il periodo della guerra e il fascismo, canzoni dell’epoca, da quelle con amori tragici e impossibili ai gorgheggi allegri del Trio Lescano, a Giovinezza, con flash spiazzanti di Rita Pavone. Le scene sono veloci, solo per qualche istante le luci si attenuano fra una e l’altra. Gli attori-ballerini si cambiano rapidissimi. Dalla tuta o la divisa passano in un attimo al costume da bagno ed è Sapore di sale intonata da Gino Paoli a evocare l’atmosfera dei divertenti inizi ’60 e il passaggio dal rock al twist, questa volta cronologicamente a posto e cantato da Rita Pavone. Ora il didascalico è abbandonato, forse troppo. Nessun riferimento o poco comprensibile al Movimento studentesco o alla Lotta di classe. Solo delle pistole lasciano intuire gli anni di piombo. A sorpresa, musiche d’oltreoceano accompagnano gli anni cupi della droga e lo sballo delle discoteche. La scena è di nuovo piena di luci e colori per un party, o meglio una cena elegante, con ragazze poco vestite e disponibili e uomini di potere. Qui le citazioni sono immediate e l’ironia torna ad avere la sua parte. Il finale, dopo il terrore e l’incredulità dell’11 settembre, è poetico. Gli attori recuperano gli abiti dell’inizio e uno alla volta scompaiono. Per ritornare tutti a salutare il pubblico, ringraziarlo e invitarlo, scendendo in platea a scatenarsi con loro in Guarda come dondolo.  Lo spettacolo, nato da un’idea di Jean Claude Penchenat del Théâtre du Campagnol, è prodotto da Tieffe Teatro Milano con la regia di Giancarlo Fares, sul palcoscenico anche lui. Al Teatro Menotti fino al 4 novembre, per poi proseguire in tournée.

venerdì 19 ottobre 2018

CULTURA IN PIAZZA




La conoscono in pochi a Milano, anche se ha avuto un’inaugurazione ufficiale con sindaco, autorità e concerto a seguire. Ed è un peccato, perché Piazza Adriano Olivetti vale proprio la pena di essere vista. Normalmente le nuove piazze sono il prolungamento di un palazzo firmato da un archistar o uno spazio compreso fra edifici di interessante architettura. Piazza Adriano Olivetti, invece, ha una sua identità che non toglie niente alle costruzioni intorno, le valorizza, senza far loro da spalla. Insomma è un piacevole insieme, non nato per caso, ma che rivela un’intelligente progettazione dietro. E fa ancora più piacere che questa piazza sia stata intitolata a un grande imprenditore, un industriale che, non solo è stato uno dei primi a privilegiare la cultura e a dare spazio ad architetti e designer per le sue fabbriche, i negozi e anche i prodotti.  Ma negli anni bui dei padroni delle ferriere si è occupato del benessere fisico e intellettuale dei dipendenti, operai, impiegati e dirigenti. Un esempio d’illuminismo imprenditoriale, forse più riconosciuto all’estero, che in questi momenti di prevalenza del becero è difficile pensare sia esistito. Ritornando alla piazza, si trova in quella ex area industriale intorno alla Via Ripamonti, ora in totale trasformazione. Da un lato c’è un enorme palazzo, la cui presenza è alleggerita dalla sagoma a triangolo e dall’effetto riflettente dei vetri in facciata. Di fronte c’è il retro della Fondazione Prada, una ex distilleria di cui il genio creativo di Rem Koolhaas è riuscito nella ristrutturazione a conservare l’aspetto di archeologia industriale. Interrotto dalla nuova avveniristica torre e dalla palazzina dorata, che con l’aiuto del sole dialoga e gioca con i riflessi del palazzo di fronte. Un terzo lato è uno skyline di fabbriche basse, mentre il quarto continua con un giardino che affianca un nuovo palazzo a gradinate. Quarantacinque alberelli autoctoni della zona nord del Po, che come si vede nel rendering presto saranno più folti, sono disseminati dappertutto, come le panchine in legno e le fontane.  Dal lato della Fondazione Prada c’è un sentiero a zig zag in un prato con erbe e piante selvatiche, volutamente lasciato incolto. A fiancheggiare, invece, il palazzo di vetro e a raddoppiare l’effetto specchio due immense vasche di cui una giallastra, per le erbe intorno. Una scelta quella della vegetazione spontanea e  dell’acqua non assolutamente casuale, ma per raccontare la presenza di fontanili, una volta, in quella zona di Milano.