martedì 23 aprile 2019

HORROR VACUI



Chi di questi tempi sostiene che l’arte si è fermata a Canaletto o a Leonardo non è un incolto o un bieco passatista.  Vuole solo farsi notare e pensa ingenuamente di essere dirompente. Certo qualcuno che ha da ridire sulle opere contemporanee s’incontra, ma è sempre più un caso isolato. Non ci vogliono studi speciali per capire che i cambiamenti nell’arte ci sono sempre stati e fanno parte dell’evoluzione. 

Forse di fronte a My bed di Tracey Emin o ai monumenti impacchettati di Christo pochi sono colpiti dalla Sindrome di Stendhal come può capitare davanti a La Ronda di Notte o a Guernica. Ma è anche vero che dietro a installazioni e video c’è un pensiero profondo, una critica al potere, una denuncia sociale, un’esplosione di sentimenti. E non occorre essere degli esperti per emozionarsi. Per essere spinti ad approfondire l’argomento, per cercare di capire cosa l’artista voleva dire. Si è un po’ stupiti, quindi, quando ci si trova davanti a The whether line progetto-mostra di Lizzie Fitch e Ryan Trecartin (Usa 1981, entrambi) alla Fondazione Prada di Milano fino al 5 agosto. Già il titolo che gioca su l’intraducibile scambio di parole di whether (se) e weather (tempo meteo) crea qualche problema. L’impatto iniziale è forte: una grande gabbia con un percorso imposto, che continua ancora ingabbiato all’esterno del padiglione principale e in quello di fronte. Il sottofondo sono rumori, strilli, umani e non. L’impressione è claustrofobica, si pensa al dramma dei confini, della perdita della libertà, dei limiti. Ma ci si sbaglia. Lo scenario cambia e ci si trova davanti a un’enorme costruzione in legno, un fienile dell’West. E, infatti, i due artisti hanno eretto una simile costruzione in una campagna dell’Ohio dove hanno vissuto. Nelle stanze le immancabili rocking chairs dello scenario western sono piazzate di fronte a video  abbastanza incomprensibili, anche secondo un noto critico d’arte. I personaggi sono spesso travestiti, i dialoghi qualunque, tutti si muovono in modo volgare e forzato. Nessuno è sufficientemente connotato per essere realistico. Nessuno è sufficientemente eccessivo per essere surreale. Raccontano un mondo, certo, ma non si capisce perché. Il riferimento è alla desolazione, allo squallore, ma anche all’horror alla Stephen King. Ci si aspetta che accada qualcosa, ma non succede. Completano la mostra una serie di film dei due artisti e sono un prolungamento di incomprensione. Certamente un progetto grandioso in termini di lavoro, materiali, tempi di realizzazione. Un po’ deludente confrontato a opere della Fondazione straordinarie, come Carne y Arena di Alejandro Inarritu sull’emigrazione clandestina in Usa (blog 28 settembre 2017). O ai molti pezzi della collezione permanente o alla mostra Surrogati: un amore ideale , in corso all’Osservatorio (blog 23 marzo 2019).   


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