sabato 10 marzo 2018

CHISSA' SE LO VOLEVA STREHLER


Quello che colpisce di più è l’attualità. Il fatto che non risenta minimamente dei suoi anni, pur trattando temi e argomenti non assoluti, ma legati all’epoca. Se si ha una certa età, si può pensare che è il richiamo di quei tempi, vissuti in prima persona, che lo fa sentire contemporaneo. Ma il successo dello spettacolo tra i giovani e addirittura i millennial, smentisce l’ipotesi.   Mi voleva Strehler, di Umberto Simonetta e Maurizio Micheli, ha quarant’anni  e, da ieri fino a domani, ritorna dopo 1200 repliche  al Teatro Gerolamo di Milano, dove è stato rappresentato la prima volta. Sulla scena sempre e solo Maurizio Micheli con un monologo di una comicità irresistibile dove perfino luoghi comuni, canzoni becere, battute scontate sono trattate con il filtro di un’intelligenza e di una cultura che l’impressione sulla scena è di vero teatro. Micheli è Fabio Aldoresi, attore frustrato costretto a recitare in un cabaret d’infimo ordine dove il doppio senso e la volgarità sono l’unica attrazione per un pubblico rozzo. Ma, desideroso di un riscatto che è sicuro di meritare, si prepara a un provino, non si sa fino a che punto immaginato o reale, con il regista Strehler. Ed è tutto un susseguirsi di prove e modi di presentarsi.   L’attore sfigato e patetico si alterna al presuntuoso-incompreso, quello che crede di aver capito tutto del teatro e si riempie la bocca di citazioni convive con  quello imbranato che si sente inferiore per tutto, anche per il fatto di  non essere bello. Stupendo a questo  proposito il pezzo sui divi di Hollywood e su Alain Delon. Frasi di grande teatro si alternano a satira dotta e gustosa, fra ricordi di incontri speciali. Irresistibile quello, non si sa se reale o inventato, durante il  maggio francese  con Jean-Louis Barrault  o quello con il Living Theatre a Bari. Micheli passa con una facilità e un’abilità incredibile dall’intonare perfettamente   una canzone al discorso serrato in vari dialetti, dall’esibizione da mimo  a inscenare una serie di quadretti-luoghi comuni: il ristoratore toscano aggressivo e supponente, l’attore barese ignorante, eccetera. E tutto si svolge su una pedana  girevole che diventa ora il palco kitsch del cabaret ora il camerino  da attore sfigato, ora la sua modesta stanza da letto tappezzata con foto di divi, che lui dice autografate.

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