martedì 19 novembre 2024

OLTRE IL GIARDINO

Il libro s’intitola Il giardino delle delizie e il suo autore è un architetto. Immediato pensare che si tratti di un architetto di giardini. E invece no. Ugo La Pietra è anche un editor, un musicista, un fumettista, un pittore, un cineasta, ma nella progettazione non tratta giardini.  Li tratta d’artista, nel senso che oltre ad aver scritto  altri libri sui giardini, li studia, li dipinge, li disegna. E nella mostra, aperta alla Galleria Paula Seegy a Milano fino al 30 novembre,  si trovano ben 27 delle sue opere in gran parte inedite, tra acrilici su tela, su legno, su carta, oltre a un album di disegni. Ma dietro a questi lavori c’è tutto un pensiero che La Pietra ha ben espresso ieri alla presentazione del libro in galleria. 




Ha parlato di urbanistica, di natura, di artificio. Perché il giardino è espressione del rapporto tra natura e struttura e dal punto di vista artistico nei giardini si fondono l’arte concettuale e la spettacolarità, due correnti artistiche che lo stesso La Pietra ha attraversato o comunque ne è venuto a contatto. Nei suoi dipinti si percepisce l’amore per i giardini “meta di riposo psicofisico, luogo dove coltivare  …spettacolarità e concettualità”, “spazio organizzato per il piacere”, “espressione del superfluo”, “sinonimo di paradiso”. Da cui la serie Il giardino delle delizie.  Ma anche l’incontro tra struttura e natura : è il caso dell’affascinante serie Gazebo (foto in basso). Nel libro scrive di fare attenzione al rapporto architettura-natura perché con il tempo vince la natura. Il suo discorso si "allarga", passa dal parlare del giardino come luogo di rifugio e contemplazione ai gazebi come luoghi di decompressione che nelle città potrebbero offrire un rimedio all’inquinamento acustico e atmosferico. 
 Evidenzia come in Italia, a differenza dei paesi soprattutto del nord, non ci siano parchi urbani. Un filo poetico aleggia su tutto. Riporta frasi come quella di Gilles Clément (botanico, paesaggista, entomologo che da anni conduce esperimenti nel suo giardino nella Nuova Aquitania, in Francia):"...il giardino sembra il solo e unico territorio d’incontro tra l’uomo e la natura, dove il sogno sia autorizzato". E osservando i suoi quadri il sogno continua. In linea ed esaustiva la prefazione del libro di Manuel Orazi.  

venerdì 15 novembre 2024

QUEL PASTICCIACCIO BELLO

Un umorismo raffinato, inedito, con riferimenti colti d’attualità e non, capace di scatenare risate irrefrenabili, che riesce a tenere la scena per un‘ora e mezza, senza un momento di cedimento. Questo è Fantasista!-A comedy pastichaccio (sì proprio scritto così) per la prima volta a Milano, al Teatro della Cooperativa fino al 17 novembre. In scena con un leggio, che guarda di tanto in tanto, Alessandro Ciacci (classe 1989) che del monologo è autore, regista oltre che unico attore. Come lui stesso scrive nelle note di regia è uno "show fluido" in cui “lo spettatore non assisterà a nulla di canonico, di ortodosso…un happening in cui le risate saranno provocate da un’imponente dose di follia”.

E qualcosa già affiora in quel sottotitolo : menippeo q.b. & con uso di paillettes. Ciacci parla di tutto, dall’autobiografico incontro con la sua maestra d’asilo, alla proposta della fidanzata Laura di una costosissima passeggiata nel bosco per sentire il bramito di un cervo. Con intervalli, in stile pubblicità del vecchio Carosello, revocato dalla musica. In un mix, spiega Ciacci, di Monthy Python e Woody Allen, si pubblicizza anche una bara. Niente è prevedibile, niente è scontato. Così tanto che se ci si distrae un attimo si rischia di perdere il filo. E si finisce per guardare invidiosi il vicino di poltrona che ride a crepapelle. Lo spirito critico c’è, si sente, ma non è dominante e comunque non è il filo conduttore. Ci sono dei bersagli, ma accennati, da intuire. Interattiva l’ultimissima parte in cui l'attore chiede al pubblico di scegliere tra due proposte per una serie di "cose", assolutamente surreali.

giovedì 14 novembre 2024

QUELLO CHE CONTA E' L'IMPRESSIONE

Il film Pissarro. Il padre dell’impressionismo, diretto da David Bickerstaff, già come è strutturato dice molto della pittura dell’  artista. Quale altro film biografico potrebbe essere fatto solo con dipinti del pittore, alternati da qualche altro non suo e dai commenti di direttori di museo e curatori di mostre? Il suo tipo di pittura, come lo stesso Pissarro afferma, non porta sulla tela persone, natura, case, come sono, ma ne riporta l’impressione che possono dare e che gli hanno dato. Da cui il nome Impressionismo. E come tali in questo senso già parlano di lui, del suo modo di vedere il mondo intorno, perché le sue opere sono tutte dipinte dal vero.  




E'particolare la sua visione di un bosco, della campagna francese, di un boulevard parigino ma anche delle persone.  Attraverso le contadine intorno all’albero (nella foto del manifesto) riesce a trasmettere il senso del lavoro duro, della fatica quotidiana, più che farne dei ritratti.  Nella donna "che si bagna i piedi" si percepisce la freschezza dell’acqua,  oltre a una certa sensualità. Nel ritratto della figlia morta a otto anni, con in braccio la bambola si avverte il dolore di un padre che conosce il tragico destino della sua bambina. Il film mette ben in evidenza la forza della pittura di Pissarro, il suo essere stato avanti nei tempi e quindi le difficoltà a essere capito. Molto di questo artista Bickerstaff l'ha ricavato dalle lettere intime scritte agli amici, conservate presso l’archivio dell’Università di Parigi, ma anche nell’archivio dell’Ashmolean di Oxford, primo museo pubblico del Regno Unito e della retrospettiva dedicata a Pissarro in quattro decenni.  Il film che fa parte della Grande Arte al Cinema , distribuito in esclusiva per l’Italia da Nexo Studios con i partner Radio Capital, Sky Arte, My Movies, sarà nei cinema solo il 19 e 20 novembre. 

mercoledì 13 novembre 2024

CRONACA DI UN MISTERO

Nessuno nato entro la fine del secolo scorso può non ricordare quel 16 marzo del 1978 e provare commozione, indignazione, rabbia, paura, sgomento. Difficile però che questi sentimenti possano tornare tutti insieme in un teatro.  Perché è questo che suscita  Moro: i 55 giorni che cambiarono l’Italia, ieri e oggi al Teatro Menotti Filippo Perego di Milano.  In scena Ulderico Pesce  che ha scritto il racconto scenico con il giudice Ferdinando Imposimato, titolare dei primi processi del caso Moro, e ne ha anche curato la regia. 


E’ lui che prende la voce di Ciro, fratello di Raffaele Iozzino, uno degli uomini della scorta di Moro uccisi quel 16 marzo, l’unico che riuscì, prima di morire, a sparare due colpi di pistola contro i terroristi. Toccante il suo ricordo dell’ immagine in televisione del lenzuolo da cui usciva un braccio con un orologio, proprio quello che lui, Ciro, aveva regalato a suo fratello per la Cresima. Al racconto personale, con l’incredulità, l’orribile scoperta, il dolore della mamma si alternano considerazioni su quel giorno. Sui dettagli, i commenti, le testimonianze che sempre di più convergono a dimostrare come quel rapimento-strage, con conseguente assassinio 55 giorni dopo, era frutto di una macchinazione giostrata da un presidente del Consiglio e un ministro dell’Interno manovrati dai petrolieri e i conservatori americani, per bloccare quel compromesso storico che mai si attuò.  Uno schermo ogni tanto manda immagini di via Fani, delle auto,  dei corpi per terra, dello stesso Imposimato. Impossibili da dimenticare. Anche queste come le parole di Pesce mettono in risalto incongruenze e stranezze, che confermano sempre di più il complotto dall’alto. Perché la scorta teneva nel bagagliaio le armi e non a portata di mano? Perché sia l’auto di Moro che quella della scorta non erano blindate? Dov’era scomparso quel rullino con le foto dell’agguato? Perché a indagare sul rapimento fu l’Ucigos, organismo di polizia speciale alle dirette dipendenze di Cossiga, creato solo due mesi prima? Perché uno dei titolari della scorta venne mandato in ferie quel giorno e sostituito da Francesco Zizzi, da pochissimo poliziotto, appassionato di canzoni e di Modugno , che  prima di morire, in auto, cantava La lontananza. Ed è proprio quel mix di quotidianità e di tragedia, di persone normali  diventati indimenticabili e compianti eroi che rende quanto mai forte lo spettacolo. L’unico difetto la poca permanenza a Milano. Che invoglia  però a un altro spettacolo al Teatro Menotti, sempre scritto, diretto e interpretato da Ulderico Pesce, con l’accompagnamento della fisarmonica di Pierangelo Camodeca. E’ I sandali di Elisa Claps, dal 14 al 17 novembre, che racconta un altro mistero: quello della ragazza scomparsa e ritrovata cadavere dopo 17 anni nel sottotetto di una chiesa di Potenza.             


venerdì 8 novembre 2024

VANITA' DELLE VANITA'...

Al primo impatto affascina e sarebbe sufficiente per meritare una visita. Ma la mostra Vanitas da Brun Fine Art a Milano dà molto di più. Tutto comincia dal titolo. Una parola latina che vuol dire vuoto, effimero, poi prende significati diversi, non sempre positivi. Legati alla bellezza certo, ma anche a quella superficialità che ne deriva, al fermarsi alle apparenze, ai luoghi comuni. La mostra in qualche modo lo racconta. Esposte una sessantina di opere tra sculture e gioielli.  Le sculture sono busti o teste in marmo bianco da fine 700 a fine 800, i gioielli sono invece moderni, ma soprattutto contemporanei. Un contrasto-accordo che in qualche modo è enfatizzato dai numerosi specchi sulle pareti, dove oltre le opere si riflette lo stesso visitatore. Con effetti particolari.


Al centro della galleria su un tavolo il classico putto-angioletto con in mano un grande bracciale e intorno teste femminili con collane e spille e una testa maschile con una mascherina d’oro. Tra i pezziforti, proprio davanti alla vetrina, una delle famose Psiche di Pietro Tenerani del 1861 con un gioiello cinetico, datato 1968, di Arnaldo Pomodoro, una catena d’oro “che scivola sulla schiena sublimando la bellezza della scultura”(in basso a destra). E poi il busto di donna con vistosa capigliatura a boccoli del 1838, firmato Francesco Pozzi, che “dialoga” con una collana dall’immaginifico ciondolo del 1974 su disegno di Man Ray del 1937(in alto a sinistra). O ancora il ritratto di Antonio Canova del suo allievo Raimondo Trentanove del 1822 con una coloratissima collana in poliuretano espanso dello scultore Piero Gilardi, scomparso nel 2023(in alto a destra). La mostra, inaugurata ieri, è aperta fino al 19 dicembre da Brun Fine Art, via Gesù 17.



 

giovedì 7 novembre 2024

STAPPARE E' DESIGN

Può un cavatappi diventare oggetto di culto? La risposta affermativa l’ha già data Alessandro Mendini nel 1994. Quando ha disegnato, per Alessi, Anna G stilizzata figura femminile in zama (mix di leghe a base di zinco) cromata e resina termoplastica, pronta ad aprire bottiglie. Dieci anni dopo la affiancava un altrettanto stilizzato Alessandro M, nello stesso materiale, anche lui pronto ad aprire bottiglie. Venti e trent’anni dopo, il loro successo continua e viene celebrato da una nuova versione della "coppia" con il design di tre nomi della moda, della grafica e della pittura e cioé Arthur Arbesser, Studio Temp e Fulvia Mendini, figlia del grande architetto. 

 





Nuovo anche il materiale biocomposto, per un ciclo di vita “ecologicamente responsabile”. Ogni designer ha inoltre creato una serie di solo due pezzi numerati e firmati e una prova d’autore, per un totale di nove pezzi. Arbesser ha decorato il suo cavatappi Anna G con pettinatura a caschetto e abito di vari colori forti, gli stessi usati nelle sue collezioni (foto in alto) e per la prova d’autore abito nero con maniche a palloncino verdi e vistosi orecchini (foto in basso a destra). Per lui, Alessandro M, ha scelto una casacca a maxirighe davanti e a maxiquadri dietro su pantaloni a righe e bombetta in testa. Pantaloni a righe anche per la prova d’autore ma con casacca, d’argento come il cappello a cono (foto in basso a sinistra). Studio Temp porta la street art su entrambi i cavatappi, ed ecco grafiche di segnaletica stradale e disegni vari anche con elementi fosforescenti, leggibili solo al buio. Fulvia Mendini immagina un bosco di querce colorate in rosso e in verde, che diventano un abito per lei e un completo per lui. I fantastici cavatappi sono nei negozi dal 15 ottobre, ottima idea per una tavola natalizia.

martedì 5 novembre 2024

BIOGRAFIA ILLUSTRATA DI UN GENIO

“L’uomo che ha distrutto la moda” così era titolato l’articolo  del Corriere della sera nell’ottobre 1976, firmato Enzo Biagi, su Elio Fiorucci. Ma è sufficiente leggere il sommario e aver conosciuto il giornalista per rendersi conto di quanta ironia c’era in quel titolo. Ora, a quasi dieci anni dalla scomparsa di Fiorucci, ci si chiede come mai solo adesso gli sia stata dedicata una mostra, che apre domani a Milano e chiuderà il 16 marzo. Location la Triennale, luogo adatto a un personaggio dall’inesauribile creatività, primo a mettere insieme moda, design, musica e soprattutto a cogliere nel mondo stili e modi di vita, reinterpretarli senza snaturarne le caratteristiche fondamentali. Tanto da essere stato “per almeno due decenni un magnete della cultura giovanile internazionale e la culla di contaminazioni più fertili e audaci”. Come ha detto Stefano Boeri, presidente della Triennale, alla presentazione della mostra, dove ha anche parlato di “riempire il vuoto di una formidabile amnesia”. 





Curata da Judith Clark, direttrice artistica e docente di Moda e museologia a Londra, con l’allestimento di Fabio Cherstich, regista e scenografo, la mostra racconta un personaggio davvero unico, partendo dalla sua infanzia. Il percorso espositivo si apre con un’ aula scolastica da un solo banco, quello di Elio Fiorucci e una finestra al posto della lavagna. Finestra da cui "il ragazzino distratto e non interessato allo studio" vedeva il mondo, fatto di viaggi, di sogni, ma anche di commercio, che sarebbe stato il suo futuro. Com’ era scritto nel tema su fogli protocollo, posato sul banco. Da qui comincia la mostra con un ordine cronologico, ma non "determinante". “Con il permesso di divagare” ha spiegato la curatrice “E’ un documento aperto, non chiuso... una biografia intellettuale rispettosa delle mura in cui siamo”. Sopra l’aula pendono modellini di aerei, automobili, elementi del viaggio e del sogno. Tutto il resto sono pezzi di archivio, molti dati dai famigliari. “Abbiamo messo in ordine un delirio” ha detto Cherstich. Ovviamente di creatività. Nell’ampio e lungo salone  manifesti 
con le vamp, con i famosi angeli, con personaggi vari, oggetti, e poi fotografie , capi di abbigliamento, i suoi stivaletti in gomma, i nanetti, le borse di plastica. Su un tavolo la ricostruzione della scrivania di Fiorucci traboccante di oggetti. Nelle foto e nei manifesti molti i volti conosciuti, da Keith Haring, a cui Fiorucci affidò il compito di decorare le pareti del negozio di Milano, ad Andy Warhol, che scelse lo store Fiorucci di New York per il lancio della sua rivista Interview.  E ancora Basquiat, Madonna, che erano suoi amici. Per tutta la mostra si sente musica di quegli anni, ma anche la voce di Fiorucci che racconta. Svariati i documenti, le foto, gli oggetti di paesi lontani portati da ogni parte del mondo dai suoi collaboratori "trovarobe". Oltre al manifesto della donna pettoruta con occhiali neri, che  mostra la pagina con l’articolo del Corriere della Sera.