venerdì 26 ottobre 2018

UNA STORIA VERA


Non capita più in teatro di non sentire tra il pubblico il minimo rumore. Perfino in templi sacri come la Scala si avverte il fruscio di una gonna, il brusio della carta del programma toccata da una mano, un leggerissimo colpo di tosse. E' accaduto ieri sera al Teatro Verdi di Milano con moro: i 55 giorni che cambiarono l’Italia (la m di Moro è minuscola per sottolinearne lo stesso inizio del verbo morire). E non è stato per una forma di soggezione, ma perché l’attenzione era così forte da non lasciare spazio al più piccolo movimento. Come se questo potesse distrarre. In scena Ulderico Pesce che con il giudice Ferdinando Imposimato, titolare dei primi processi Moro, è autore dello spettacolo che da anni gira l’Italia. Contornato da vecchi televisori, un tavolo con fogli e una sedia, l’attore diventa Ciro, il fratello ai tempi quindicenne di Raffele Iozzino, l’unico uomo della scorta che  riuscì a sparare due colpi prima di essere ucciso. Attraverso le sue parole si rivedono gli antefatti. Si entra in casa Iozzino a Casola di Napoli. Si vede la mamma che dà a Raffaele una lettera per il presidente Andreotti, con la richiesta di blindare la 130 nera di Moro e l’Alfetta bianca della scorta, le uniche dei politici al governo a non esserlo. Insieme a un cesto con le prelibatezze della sua terra. Cesto che si ritroverà intonso con la lettera, sotto il letto di Raffaele. E farà piangere per la prima volta il maggiore dei cinque figli Iozzini.  Con Ciro si rivive il momento tragico quando dalla televisione scopre la morte del fratello. Da quel braccio con l’orologio regalato dal nonno per la cresima, che esce dal lenzuolo bianco. Non c’è retorica, né compiacimento per ruffianarsi la commozione. Anzi ci sono stacchi che fanno sorridere, come il dialogo fra Ciro e Adriana Zizzi, anche lei quindicenne, sorella del poliziotto Francesco, che quel giorno sostituiva un collega. Con la passione per Domenico Modugno e il sogno di diventare cantante. E i due immaginano che i fratelli negli ultimi istanti, prima di morire, abbiano cantato La Lontananza. Accanto al racconto del dolore delle famiglie e delle ansie per la vita di Aldo Moro, prende forma un altro racconto, forse più raccapricciante. S‘incominciano a intuire cose non dette, si spiegano strane coincidenze come la presenza di un  colonnello  dei servizi segreti nel luogo del rapimento, mezz’ora prima. Si capisce perché al giudice Imposimato vengono tolte le indagini, per darle, trasgredendo il Codice di procedura penale, alla Procura della Repubblica. E restituirgliele solo quando Moro è morto da nove giorni. Ed è impossibile non farsi trascinare dallo sgomento e dalla rabbia. Per cui quando, dopo gli applausi, Pesce ringrazia e chiede al pubblico di firmare una petizione per continuare a indagare sul caso, è difficile trattenersi da farlo subito. Lo spettacolo in collaborazione con il Teatro Menotti è a Milano ancora stasera, per poi proseguire la tournée.         

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