UNA STORIA VERA
Non capita più in teatro di non sentire tra il
pubblico il minimo rumore. Perfino in templi sacri come la Scala si avverte il fruscio
di una gonna, il brusio della carta del programma toccata da una mano, un
leggerissimo colpo di tosse. E' accaduto ieri sera al Teatro Verdi di Milano con moro: i 55 giorni che cambiarono l’Italia (la
m di Moro è minuscola per sottolinearne lo stesso inizio del verbo morire). E non è stato per una forma di soggezione, ma perché l’attenzione era
così forte da non lasciare spazio al più
piccolo movimento. Come se questo potesse distrarre. In scena Ulderico Pesce
che con il giudice Ferdinando Imposimato, titolare dei primi processi Moro, è
autore dello spettacolo che da anni gira l’Italia. Contornato da vecchi
televisori, un tavolo con fogli e una sedia, l’attore diventa Ciro, il fratello ai tempi quindicenne di Raffele Iozzino, l’unico uomo della scorta che riuscì a sparare due colpi prima di essere
ucciso. Attraverso le sue parole si rivedono gli antefatti. Si entra in casa
Iozzino a Casola di Napoli. Si vede la mamma che dà a Raffaele una lettera per
il presidente Andreotti, con la richiesta di blindare la 130 nera di Moro e
l’Alfetta bianca della scorta, le uniche dei politici al governo a non
esserlo. Insieme a un cesto con le
prelibatezze della sua terra. Cesto che si ritroverà intonso con la lettera,
sotto il letto di Raffaele. E farà piangere per la prima volta il maggiore dei
cinque figli Iozzini. Con Ciro si rivive
il momento tragico quando dalla televisione scopre la morte del fratello. Da
quel braccio con l’orologio regalato dal nonno per la cresima, che esce dal
lenzuolo bianco. Non c’è retorica, né compiacimento per ruffianarsi la
commozione. Anzi ci sono stacchi che fanno sorridere, come il dialogo fra Ciro
e Adriana Zizzi, anche lei quindicenne, sorella del poliziotto Francesco, che
quel giorno sostituiva un collega. Con la passione per Domenico Modugno e il
sogno di diventare cantante. E i due immaginano che i fratelli negli ultimi
istanti, prima di morire, abbiano cantato La
Lontananza. Accanto al racconto del dolore delle famiglie e delle ansie per
la vita di Aldo Moro, prende forma un altro racconto, forse più
raccapricciante. S‘incominciano a intuire cose non dette, si spiegano strane
coincidenze come la presenza di un
colonnello dei servizi segreti nel
luogo del rapimento, mezz’ora prima. Si capisce perché al giudice Imposimato
vengono tolte le indagini, per darle, trasgredendo il Codice di procedura
penale, alla Procura della Repubblica. E restituirgliele solo quando Moro è
morto da nove giorni. Ed è impossibile non farsi trascinare dallo sgomento e dalla rabbia. Per
cui quando, dopo gli applausi, Pesce ringrazia e chiede al pubblico di firmare
una petizione per continuare a indagare sul caso, è difficile trattenersi da
farlo subito. Lo spettacolo in collaborazione con il Teatro Menotti è a Milano ancora stasera, per poi proseguire la tournée.
Nessun commento:
Posta un commento