Un uomo tacciato
di manichino raramente è un seduttore. Al massimo gli si riconosce un’eleganza
formale, ma fascino e sex appeal zero. Per
il manichino al femminile è diverso. Forse perché in francese la parola indica
anche una creatura animata, in genere bella.
O forse perché c’è una letteratura, spesso deteriore, su manichini donna capaci di far innamorare da
dietro la vetrina. Ovviamente di notte nelle strade deserte. I manichini fotografati nel volume “Mannequins.
Bonaveri. A History of Creativity Fashion and Art” (Skira Editore), non suscitano passioni, ma sono intriganti.
Già dalle prime pagine si è presi dalla curiosità
e dalla voglia di continuare a sfogliare il libro, quasi per sapere
come va a finire la storia. Contribuiscono, oltre alla scelta delle foto, i
testi ben coordinati da Gianluca
Bauzano, che è il curatore del volume. A
cominciare dai due primi scritti dei fratelli Bonaveri che, con il libro, hanno
voluto festeggiare i sessant’anni dell’ attività di costruttori appunto di
manichini, iniziata dal padre Romano nel ghetto ebraico di Ferrara. Niente
nostalgie autoreferenziali un po’ scontate,
ma il racconto di una passione
diventata lavoro. L’importanza di saper creare qualcosa a figura umana capace
di “valorizzare l’ abito, esprimere il tema, senza tuttavia rubare la scena”
come scrive Andrea Bonaveri . Molte le
testimonianze, anche gli aneddoti di stilisti, direttori creativi, couturier,
curatori di esposizioni per i quali il manichino è stato fondamentale. Come per
la mostra sulla moda in Italia nel 2011,
alla Venaria Reale di Torino, curata da Franca Sozzani, direttore di
Vogue, che con i manichini ha ricostruito una sfilata con passerella e
pubblico. Bellissime le immagini della mostra di Roberto Capucci al Teatro
Farnese di Parma nel 1996. “Il manichino deve essere discreto. Direi
metafisico, il volto un’idea, il naso appena accennato” scrive Capucci.Molte le foto di presentazioni
statiche o vetrine che spiegano il livello di creatività che si può raggiungere. Ecco manichini con articolazioni, per renderli più
vivi o
con le teste sostituite da
animali e piume, come nella mostra
di Louis Vuitton del 2012 al Musée des Arts Decoratifs a Parigi. “Si tratta di forme che chiedono di vivere su quel palcoscenico
che è la vetrina” scrive Antonio Marras.
E a parole, alla presentazione del libro, aggiunge “Il manichino invita a
entrare nel negozio, proprio come le
modelle sono il tramite per far vivere l’abito in sfilata”.
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