Chissà come potrebbe essere Labyrinth
fuori da quell'ambiente? Il
progetto-installazione di Jimmie Durham (nella foto al centro) è infatti un site specific, o meglio è
concepito lavorando sullo spazio
esistente e le sue strutture. Anche se si tratta di elementi che potrebbero
fare parte di mille altri luoghi: sono tubature, bulloni, travi di legno con e
senza chiodi, retro di interruttori,mattoni.
Insomma tutto quello che
c’è in una costruzione
ma non si vede. Sono
raccolti in vetrine e risaltano in modo particolare nei saloni della Fondazione
Adolfo Pini a Milano, un palazzo altoborghese di fine Ottocento, studio e
dimora del pittore Renzo Bongiovanni Radice e per volontà del nipote, Adolfo
Pini, diventato Fondazione. Per promuovere e valorizzare l’opera dello zio e
sostenere giovani artisti attraverso mostre, studi, progetti. Questo, a
differenza dei tre precedenti dedicati all’arte contemporanea a cura di Adrian
Paci, coinvolge un artista americano, che oltre a essere molto affermato , non
è anagraficamente giovane. Ma, come ha detto Paci e ha ribadito la curatrice
della mostra Gabi Scardi, lo è nella leggerezza e nella totale assenza di
retorica dei suoi lavori. In quella sua volontà di decostruire c’è un
potenziale sovversivo, una continua critica al concetto di stabilità. Delle architetture non guarda anzi scardina l’idea di monumentalità e
perfezione e restituisce rispetto a tutto quello che c’è sotto, nascosto. Mette
in risalto viscere e interiora, quello che nessuno considera
e nessuno vede. Un interessa che Durham racconta
anche in un video del 1994 A man who had
a beautiful house . Qui un elegante signore, in mezzo al verde, parla del
suo castello, nei particolari e nei dettagli. Il castello non si vede mai, ma è
l’idea di abitare che viene fuori. Una mostra non certo di immediata
comprensione, ma che dà molti spunti su cui
riflettere. Oltre a far conoscere
le belle sale di un palazzo storico. Da
vedere da domani fino al 29 giugno.
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