Tilda Swinton e Edward Norton(in basso) in pellicce Fendi
Chi sostiene
che la perfezione sia un’utopia, guardando il film “Grand Budapest Hotel” di Wes
Andersen potrebbe ricredersi o per lo meno non essere più così ferreo nella
sua convinzione. C’è tutto quello che di meglio il cinema può dare. Intrattenimento,
che significa una trama forte con imprevisti e sorprese. Una
recitazione di tale livello che si
ha difficoltà a riconoscere gli attori, anche se tutti o quasi sono notissimi.
Perché i personaggi che interpretano
sono talmente convincenti che non è possibile immaginarli o rivederli in uno
dei tanti ruoli che hanno interpretato. Il protagonista Monsieur Gustave (Ralph Fiennes) è di uno
snobismo caricaturale ma con un animo nobile da supereroe, eppure è una figura vera, reale. La
fotografia è un insieme di immagini che potrebbero essere guardate e ammirate
indipendentemente l’una dall’altra, fuori
dal contesto. Le scene, così come i costumi (Milena Canonero), si rifanno al passato, ma
sono così ben studiati da essere lontani anni luce dalla ricostruzione
pedissequa. Quasi da risultare frutto di una tendenza originale di quei tempi.
Ci sono gli azzurri e i rosa del pop, c’è l’essenzialità un po’ cupa e
inquietante dei disegni di Escher. C'è l' enfasi del fumetto e il
kitsch da cartolina di paesaggi alpini. C’è quel poco di fiaba da mettere di
buon umore senza essere stucchevole, quel tanto di suspense da attrarre senza
angosciare. Quella giusta dose di intellettuale per non cadere mai nello
sfoggio accademico. Ci sono tocchi di surreale così ben piazzati da non intralciare la
narrazione. La storia, molto liberamente ispirata da un romanzo di Stefan Zweig, prende, coinvolge. Si ride, si
sorride, si partecipa alle fasi drammatiche con apprensione, però si esce
sempre come si poteva uscire a otto anni dal più mieloso happy end di Disney.
E con la voglia di tornare a rivedere il film.
Nessun commento:
Posta un commento