Da un romanzo di Giovanni Verga non ci si poteva aspettare che un quadro di realismo puro, riferito al suo periodo storico. Eppure il riadattamento drammaturgico di Micaela Miano e la messinscena del regista Guglielmo Ferro danno un’attualità, anche se tra le righe, a Storia di una capinera. Al Teatro Menotti Filippo Perego di Milano fino al 18 febbraio, racconta la vicenda di Maria, la convincente Nadia De Luca che, rimasta senza mamma, vive in convento dall’età di sette anni. Una scelta considerata a fin di bene, suggerita al padre dalla nuova moglie, che vuole favorire i propri figli, in particolare la figlia e sorellastra di Maria, che farà sposare al giovane Nino. Proprio il ragazzo di cui Maria s’innamora nel breve periodo che torna a casa dal convento, prima di rientrarci definitivamente da novizia a suora.
La storia, letta secondo le norme e le regole che vigevano nelle famiglie a quei tempi, è datata, ma viene attualizzata e resa eterna dal concetto di Amore. Che non è solo quello struggente della povera Maria, che dopo averlo sperimentato, anche se con un solo bacio corrisposto, se lo vede portare via in modo brutale. Tanto che tornata in convento ne morirà dopo una penosa agonia. Ma è anche l’amore del padre che la vede fragile e indifesa e si lascia convincere dalla matrigna a proteggerla tra le mura di un convento, trasformandosi in carceriere spietato prima e in assassino dopo. Commuovente e poetico il monologo in cui Enrico Guarneri, che interpreta magistralmente il ruolo del padre, racconta di una capinera che voleva volare ma, timida e fragile proprio come sua figlia, preferisce ritornare in gabbia e lasciarsi morire. Uno spettacolo che è molto di più "dell’affresco della Sicilia borghese ottocentesca", ma riesce ad arrivare all'introspezione e parlare dell’amore in varie forme. Bravissimi tutti gli attori, notevole la regia e la scenografia con i pannelli scorrevoli e le proiezioni, che in pochi minuti trasformano le cupe stanze del monastero in un sontuoso palazzo.
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