C’è chi pensa che una mostra non
va spiegata prima, fa parte
dell’opera che il visitatore ci metta la sua interpretazione e le sue emozioni.
Nel caso di K, progetto espositivo di
Udo Kittelmann alla Fondazione Prada di Milano, l’approccio tabula rasa è impossibile. Difficile
dalla K indovinare il riferimento a
Franz Kafka. Si può intuire solo per una delle tre parti della mostra, il film
di Orson Welles Il processo (1962), tratto
dal romanzo dello scrittore boemo. Ma non per le altre due, salvo forse i
titoli, The Happy End of Franz Kafka’s
America per l’installazione di Martin Kippenberger del 1994 e Franz Kafka The Castle per il brano di
musica elettronica dei Tangerine Dream del 2013. Questo allude al romanzo kafkiano
Il castello, e si ascolta nella
Cisterna, seduti su avvolgenti poltrone di plastica disseminate su una moquette
lilla: è la traduzione in suoni dell’angoscia del protagonista che deve
raggiungere, appunto, il castello. Come ha scritto Edgar Froese, fondatore
della band morto nel 2015, “E’ impossibile trasformare Il castello in musica…non sarà mai nulla di più di un tentativo…Ma
il fatto di aver corso il rischio merita un plauso”. L’opera di Kippenberger
nel Podium racconta attraverso combinazioni di sedie, tavoli, poltrone,
scrivanie, l’odissea dei colloqui d’assunzione per un circo dei vari aspiranti,
protagonista compreso, del romanzo Il
disperso o America. Qui il
visitatore può stare seduto su due tribune laterali o girare intorno alle varie
postazioni, dove svariati pezzi sono di design italiano degli ultimi anni, e pensare
a colloqui di lavoro, ma anche a incontri
particolari, famigliari, casuali. Suggeriti da elementi a sorpresa, come il
sedile alto dell’arbitro di tennis, il podio di un bagnino con il salvagente
per l’emergenza, una scrivania con cassetti senza fondo, un lungo tavolo verde,
con solo due sedie spaiate a capotavola. Così l’installazione prende vita e
diventa interattiva con l’immaginazione di chi la guarda. Un’esperienza
affascinante che si completa con la musica dei Tangerine Dream , ma soprattutto
con il film di Orson Welles che non tradisce, nonostante sia in bianco e nero, i
suoi quasi sessant’ anni. La fotografia è straordinaria per novità e capacità
di coinvolgere, così come la recitazione di un giovanissimo Anthony
Perkins-Joseph K, non colpevole per le accuse che gli sono mosse, ma perché fa
parte di una società colpevole. Come scrive il regista che considera Il processo il suo migliore film.
La mostra K, inaugurata il 21 febbraio e subito chiusa, da ieri è riaperta e
lo resterà, salvo nuove disposizioni per Coronavirus, fino al 27 luglio. Cinema
compreso, dato che può garantire gli spazi di
sicurezza tra spettatori.
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