Mentre il
pubblico prende posto, il palcoscenico si illumina. E appare un'immagine
incuriosente. Posizionata in alto, su una mensola
c'è una panchina. Su questa, immobile, è distesa una donna vestita di verde. Non
indossa le scarpe, che sono posate per terra. Alla stessa altezza a distanza di
qualche metro, su un’altra mensola c’è un albero dorato. Qualche nota
musicale e la donna all'improvviso si sveglia, si siede e inizia a parlare. Con
qualcuno, al telefono, anche se non si vede né un cellulare, né un auricolare.
S’intuisce che c'è un'emergenza e che dall'altro capo del filo c'è il fratello.
La loro madre è stata ricoverata in ospedale. La donna s’infila le scarpe ed
eccola di nuovo seduta. L'interlocutore, il fratello Mauro, questa volta è di
fronte a lei, perché gli critica l'abbigliamento. Tra piccole accuse, attacchi
violenti, prese in giro, emerge un rapporto faticoso, dei ruoli mai accettati,
in un crescendo che alterna momenti di comicità ad altri di meschinità,
squallore, o decisamente tragici. Sembra di sapere tutto di quella donna, dei
suoi sensi di colpa, della sua intolleranza, dei suoi rimpianti, ma soprattutto
della sua solitudine. E quando nel finale è seduta sulla stessa panchina,
sconvolta, come si fosse appena svegliata, si capisce che gli anni sono passati
ed è sempre più difficile distinguere fra ricordi e mondo reale per lei, Ombretta
Calco. Si chiama così, con il nome dell’unico personaggio, la pièce in scena
fino al 10 aprile al Teatro Verdi di Milano. Scritta da Sergio Pierattini, che
si è ispirato vagamente a un curioso episodio accadutogli, ha l'ottima regia di
Peppino Mazzotta. Milvia Marigliano è una straordinaria Ombretta che, con una
panchina e delle scarpe a sua disposizione, riesce a fare entrare in una
situazione, meglio della più dettagliata scenografia. Tanto che soltanto quando
cominciano gli applausi, e le portano una scala per scendere dalla sua
postazione, si realizza che per un'ora in scena c'è stata
solo lei.
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