Il monologo a teatro è un’arma a doppio taglio.Se
l’attore/attrice è convincente, ben calato nel ruolo, può incantare lo
spettatore, anche se il testo ha solo qualche spunto interessante. Se,
invece, chi recita non è abbastanza dentro la parte, per quanto ben scritta e di livello, si prova la strana sensazione che si disperda, che non prenda e che, soprattutto, sarebbe stato meglio leggerla. Non succede con “Diario di un’ape operaia” di
Giulia Lombezzi, per la quale calarsi nella parte sembra essere assolutamente naturale. Non si
riesce a immaginare come si potrebbe interpretare quel copione in modo migliore
e con una gestualità più adatta. La motivazione è semplice da scoprire. La
giovane attrice(classe 1988) è riuscita nell’intento proprio perché ne è anche
l’autrice. Certo è importante, ma non determinante, il contributo di Claudio
Gay pianista e compositore suo coetaneo, che ha scelto dei pezzi musicali, come
stacchi o di accompagnamento, che non solo non deviano minimamente dal senso
del monologo, ma lo rafforzano. Come dice il titolo, è il racconto di
un’ape-donna che alla ricerca disperata di un lavoro lo trova in un
alveare-call center. All’inizio è un crescendo d’ilarità per i tentativi della
precaria-ape di realizzare più chiamate possibili in meno tempo. Con qualche
elemento forse un po’scontato, ma trasformato e reso inedito da una recitazione
veloce, scattante, dove la mimica e il movimento, e anche la musica di appoggio,
sono davvero innovativi. Poi, senza perdere il filo dello humour, il racconto
diventa più serio, fino ad arrivare al patetico e a toccare, senza presunzione,
ma con osservazioni acute, il problema umano e sociale.
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