Non è un teatro facile quello di Daniele
Aureli, che con La teoria del cracker
ha aperto ieri la stagione al Teatro della Cooperativa di Milano. E’ un
monologo come
lo sono i due che seguono per la rassegna Cioni Mario. Nome preso da uno spettacolo di Roberto Benigni in cui
appariva solo sulla scena. E solo sulla scena Aureli racconta del destino tragico
di un paese del centro Italia dove la gente si ammala e muore per l’amianto e
le nubi tossiche. Il tono non è quello dell’accusa dall’esterno. Sono gli
abitanti che, ricreati con voci diverse dall’attore-regista, tessono un
racconto per immagini, dove il poetico ha il sopravvento sulla denuncia
sociale. E per questo è forse ancora più forte e disperato. Vite che si spezzano
nella quotidianità più banale, dove tutto sembra continuare come ogni giorno
con i suoi personaggi. L’uomo che siede al bar, il pazzo che straparla e ripete
le frasi, per cui la giacca messa al contrario diventa una camicia di forza, la
donna che aspetta un figlio di cui s’ intuisce un legame con un pseudo
protagonista, le madri in vestaglia a fiori, e anche un cane senza padrone con tre
zampe, sempre presente con il suo abbaiare. E poi c’è la nuvola bianca, forse
borotalco nella finzione scenica, che ricopre il palcoscenico e i vestiti di
Aureli . Lui se la scrolla di dosso ma non riesce a toglierla, proprio come la
nuvola di morte che avvolge il paese.
Ogni tanto un tocco di comicità surreale, come il dialogo tra due donne
impersonate dalle gambe sollevate di Aureli di cui le scarpe diventano i volti animaleschi. Ma fa tutto parte di un
discorso di disperazione e dolore, difficile da capire se non ci si è dentro.
Come dice la teoria del cracker enunciata quasi all’inizio del monologo: “Quando
mastichiamo un cracker, il rumore che percepiamo dentro di noi è maggiore
rispetto al rumore che sentono le persone che ci sono accanto. E così quando
proviamo dolore”.
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