Moni Ovadia sul palco con un microfono in mano per
un’ora, con solo un piccolo intervallo musicale. Nessuna pausa, nessun momento
di stanchezza, nessuna ripetizione o frase sopra le righe. Una platea
attentissima, che non si è distratta nemmeno per un attimo. Questa la sintesi della
serata organizzata allo Spazio Oberdan (nella foto), a Milano, dalla Fondazione Verga, che
da quarant’anni si adopera per l’integrazione sociale di migranti e rifugiati. Il
migrante che è in noi, stranieri con noi stessi il titolo. Importante certo,
anche enfatico, ma perfetto per il contenuto, che sviluppava in pieno. Il tono
sempre un po’ sostenuto, com’è nelle corde di Ovadia, ma lontano da qualsiasi
vena retorica, facile in quest’argomento e soprattutto utile per coinvolgere la
platea. Niente false modestie, ma un Io sempre in prima fila, funzionale per
rendere più vera, più sentita, meno artefatta l’esposizione. Perfettamente
calibrato l’intervento dell’ottimo fisarmonicista Albert Florian Mihai, all’inizio,
alla fine e a metà del discorso. Non solo bravo, ma in linea con la serata
perché rom e romeno, proprio come Ovadia è ebreo e bulgaro. Considerazioni sul
mondo, sulla sua evoluzione, sulla storia dei Paesi e su come la loro forza stia
proprio nel crogiuolo di provenienze, di lingue, di esperienze e testimonianze diverse.
E gli Stati Uniti, che ora si vogliono trincerare dietro ai muri, sono proprio
un esempio di come, grazie alle immigrazioni, sono diventati la potenza più
grande nel mondo. Una serie di considerazioni raccontate con semplicità e
documentate dalla conoscenza della storia, di fronte alle quali Aiutiamoli
a casa loro o Prima gli italiani
diventano delle battute, non tanto agghiaccianti perché totalmente prive di
umanità, quanto espressione di una completa mancanza del senso del ridicolo.
L’humour del relatore, sempre costruttivo e accompagnato da una forte autoironia, non ha risparmiato
nessuno. A questo proposito è stato
difficile per il pubblico trattenere gli applausi, ma è stato impossibile
contenerli per due frasi. La prima in
cui Ovadia ribadiva, con veemenza e orgoglio,
il fatto di essere ebreo, ma non israeliano. E la seconda quando
smontava la comune convinzione della supremazia intellettuale degli ebrei,
facendo riferimento a Netanyau.
giovedì 31 gennaio 2019
mercoledì 30 gennaio 2019
UNA FORTEZZA DI TRENT'ANNI
Un progetto triennale con una serie di azioni,
oltre che naturalmente uno spettacolo, è quello che ha programmato la Compagnia
della Fortezza, costituita dai detenuti della Casa di Reclusione di Volterra,
per i trent’anni di attività. E’ un
progetto itinerante, partito da Volterra e continuato a Pisa già nel 2018, ora
approdato a Milano, prima di proseguire
per Bologna e Cagliari. Da ieri fino al 10
febbraio è, appunto, a Milano, al Teatro Menotti. Una scelta non casuale, dato
che nel 1993 una delle prime tournée della Compagnia è stata in Liguria,
grazie proprio a Emilio Russo, attuale direttore artistico del Tieffe Teatro Menotti. “Il mio rapporto
con questa banda di pazzi dura da
quasi trent’anni, ma continuo a provare l’emozione di assistere a uno
spettacolo unico” ha detto visibilmente emozionato Russo alla presentazione dell'iniziativa.
“La storia della Compagnia è una storia di sopravvivenza, dietro ogni
spettacolo c’è un tema, ma anche una guerra per affermare il senso della Compagnia.
Al momento della prima tournée sembrava che tutto dovesse morire” ricorda
Armando Punzo direttore artistico, fondatore e regista della Compagnia (al centro della foto di Stefano Vaja). E tutto
questo e molto altro è raccontato nel progetto che comprende Una luminosa lontananza, mostra
fotografica di Stefano Vaja. Nel foyer del Teatro Menotti, fino al 10 febbraio,
ripercorre gli spettacoli, gli allestimenti, i costumi e i momenti unici della
Compagnia. Il 5 febbraio segue la lectio
magistralis Voglio sognare un uomo e imporlo alla realtà di Armando Punzo, con
il coordinamento di Arianna Frattali dell’Università Cattolica di Milano. Racconta
il lavoro di regista che non si pone, come si potrebbe pensare, per obiettivo la rieducazione e il reinserimento sociale dei carcerati, ma segue un percorso per la riaffermazione del
diritto di ognuno di loro a esistere come individuo. Sempre il 5 febbraio è
programmata la proiezione del docufilm di Domenico Iannacone Sguardi sulla Fortezza. Che indaga su cosa spinge un uomo libero come
Armando Punzo a varcare la soglia di un
carcere ogni giorno, per anni. Segue uno workshop, dal 6 al 10 febbraio, con
partecipazione gratuita per 15 uomini, dai 18 ai 50 anni, e 5 donne, dai 18 ai 30, che potranno seguire in diretta la
regia, la drammaturgia, le prove e alcuni andare anche in scena. E infine l'8, il 9 e il 10 ci sarà lo spettacolo Beatitudo, liberamente ispirato all’opera di Jorge Luis Borges.
Perfettamente coerente con l’intento di Punzo, che non vuole partecipare o
raccontare la realtà contemporanea. “Non c’è possibilità di identificarsi nelle
storie di Borges, Borges mette in discussione tutte le realtà, bisogna trovarne
una all’interno”.
venerdì 25 gennaio 2019
DALLA PARTE DELL'ARTE
Un gatto dal
folto pelo nero si aggira guardingo in un cortile. Un bassotto, un border collie, un levrieroide
camminano compunti al guinzaglio dei
loro padroni, in una lunghissima coda per entrare in una casa. All’interno, in una sala deserta, c’è una cassa di legno grigio con un piccolo buco sul fondo, da cui esce, solo
con il muso, un topo che racconta una
storia in inglese. Nessun problema per la sua incolumità, il gatto non riuscirà
a raggiungerlo. Non è l’ultimo film di animazione della Disney ma l’inaugurazione
di una mostra. Il gatto come i cani e i loro padroni sono veri, il topo, invece, è finto e fa parte di un’installazione. Siamo a
Milano in Via Orobia 26 a pochi
passi dalla raffinata e minimalista nuova Piazza Adriano Olivetti e dalla
Fondazione Prada. Qui, all’interno di un cortile, con l’insegna di un outlet di
gelati, c’è l’ICA Milano, Istituto Contemporaneo per le Arti, aperto ieri sera.
L’edificio
degli anni ’30, abbandonato da più di vent’anni, all’esterno è fatiscente, ma senza
il fascino dell’ archeologia industriale. L’interno è su due piani, collegati da
una scala d’epoca in marmo di un certo pregio. Le pareti sono solo imbiancate e
il soffitto è al rustico. I grandi finestroni sono l’unico elemento caratterizzante.
Creato da un gruppo di collezionisti e diretto da Alberto Salvadori, storico
dell’arte nonché curatore di molteplici mostre e iniziative artistiche, ICA Milano non è e non vuole essere un museo, perché
non ha una collezione permanente. Ma non è neanche
solo una sede espositiva. Si configura come uno spazio dove ritrovarsi “per
raccontare e parlare d’arte”. Nel fitto programma, infatti, oltre le mostre,
sono previsti appuntamenti di vario genere. Da piccole fiere di libri a
proiezioni di film e docufilm, da reading e presentazioni di volumi e scritti a
performance e workshop. Ad aprire Apologia
della storia-The Historian’s Craft, mostra curata dallo stesso Alberto
Salvadori e da Luigi Fassi, direttore del Man di Nuoro. Il titolo è quello di
un testo dello storico Marc Bloch, pubblicato postumo nel 1949, da cui la mostra prende spunto. Come il libro è una riflessione sul ruolo della storia per
capire le vicende umane, anche nel contemporaneo. Da vedere disegni, quadri, sculture,
video, foto, ma soprattutto installazioni “che ricercano nel presente i segni
dei mutamenti in atto, delle tensioni verso il futuro, a partire dalla
comprensione del passato”. Dodici gli artisti provenienti da tutto il mondo
(uno solo italiano) e di tutte le età, alcuni noti, altri meno. La mostra
chiude il 15 marzo. ICA Milano è aperto da giovedì alla domenica, dalle 12 alle
20, con ingresso libero.
mercoledì 23 gennaio 2019
BEBA NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE
Che in Italia ci siano migliaia di meraviglie che varrebbero ognuna un
viaggio, e che invece sono sconosciute ai più, è un dato di fatto. Anche se da
qualche tempo le regioni, le provincie, i comuni cercano di valorizzare il loro
patrimonio, la comunicazione spesso non va oltre l’informazione locale. Il
libro di Beba Marsano, pubblicato da Cinquesensi Editore in italiano e in
inglese, si occupa di tutta l’Italia, regione per regione, dalla Valle d’Aosta
alla Sardegna.“Vale un viaggio. Altre 101 meraviglie d’Italia da scoprire” dice
il titolo, perché è il seguito, se così si può definire, di un altro libro pubblicato nel 2016 con lo stesso titolo, senza
la parola altre, in cui l’autrice,
giornalista e critica d’arte, prende in esame altre 101 meraviglie. E tutto lascia pensare che ne seguirà un
terzo, se non addirittura un quarto e un quinto. A conferma del grande numero
di bellezze del nostro Paese, ma
anche dello schema vincente del volume. Infatti si sfoglia, ma soprattutto si
legge, con l’approccio incuriosito di un romanzo. Accanto alle notevoli
immagini, il testo di Marsano rende accattivante la lettura. Specie il
modo, ogni volta diverso, di introdurre il luogo. Può essere una nota storica, una
descrizione del personaggio, collezionista, artefice, ideatore o semplice
habitué del posto. Può essere la descrizione di un dettaglio nascosto. Può
essere il commento o una citazione di uno scrittore presa da un suo romanzo. O
la considerazione in generale su un certo genere di monumenti, palazzi o architetture,
per quel che riguarda il contemporaneo. Mai, comunque, tra le 101 descrizioni se
ne trovano due con lo stesso tipo d’attacco. Eppure, non c’è ombra di
schizofrenia letteraria, ma la continuità è garantita, e la mano e il pensiero di un unico autore, che ogni
volta ha un modo di guardare diverso, sono quanto mai evidenti. Ma non è un esercizio
di stile al limite del virtuosismo, che sarebbe fine a stesso, ma è funzionale
per rendere leggera e scorrevole la descrizione di così tanti soggetti. In coda
a ogni meraviglia una mezza pagina è dedicata a un albergo e a un
ristorante, spesso con lo stesso indirizzo, vicino al luogo descritto. Utile,
ma forse un po’ stridente con il contesto, che non è solo una guida. Strana
anche l’esauriente prefazione dell’editore ripetuta sul risvolto di copertina.
venerdì 18 gennaio 2019
TRA UTOPIA E METAFORA
Che Shakespeare abbia svolto tematiche attuali, e quindi
continui a essere rappresentato, è un dato acquisito. Ma che un lavoro di
Aristofane, scritto nel 400 avanti Cristo, possa diventare una commedia pop con
un contenuto, anche se formalmente riveduto, assolutamente contemporaneo,
sorprende davvero. Accade al Teatro Menotti di Milano, dove Tieffe Teatro ha
portato in scena Uccelli di Aristofane con
l’adattamento e la regia di Emilio Russo. La vicenda è quella di due ateniesi,
profughi al contrario, Pisetero ed Evelpiede, che scappano dalla polis per trovare un luogo senza
burocrazia, lontano dai meccanismi complicati e contorti del potere e del denaro.
Pensano di trovarlo in una fantomatica comunità di uccelli, creature libere e
felici, considerati nella perduta età dell’oro i veri padroni del mondo, poi
soppiantati da dei e uomini. Ma Nubicuculia città-utopia, fondata sulle nuvole,
avrà ben presto le stesse pecche e la corruzione dei luoghi da cui i due erano
fuggiti. Sulla scena sette giovani attori capaci di ballare, cantare, esibirsi
in salti acrobatici e dialogare in un mix di dialetti con un linguaggio che
pesca disinvolto da Cervantes e George Orwell, ricorda a tratti il surrealismo
di Jarry e in certi momenti richiama la vis comica di Totò. Notevoli i costumi,
da quelli delle ragazze-uccello, chiuse in lunghe palandrane grigie ai
soprabiti e i mantelli con interno di piume colorate. D’effetto la scenografia,
che con giochi di luci e ombre cinesi, crea un’alternanza di straordinarie
installazioni. A fare da colonna sonora tre musicisti con chitarra, violino,
tastiera o tamburello e i virtuosismi di una cantante che passa dalla ballata popolare al
canto degli uccelli. Lo spettacolo, ieri in prima nazionale, sarà al Teatro Menotti
fino al 3 febbraio (foto di Gianfranco Ferraro).